Il Libano è ora una bomba innescata pronta a esplodere sui nostri soldati

Scontro aperto nel governo di Beirut: 5 ministri sciiti sbattono la porta. E il presidente Lahoud dice no a una Corte internazionale per l’inchiesta Hariri

Gian Micalessin

I cinque ministri sciiti sbattono la porta in faccia al premier libanese Fouad Siniora e abbandonano il governo. Il presidente del Parlamento, Nabih Berri, sciita pure lui, coglie la scusa di una conferenza internazionale e se ne vola a Teheran. Il presidente filosiriano, il cristiano Emile Lahoud, annuncia di voler porre il veto sull’eventuale decisione dell’esecutivo di trasferire a una Corte internazionale il processo sull’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri. Quarantotto ore dopo il fallimento dei colloqui per l’allargamento del governo, pretesi da Hezbollah e dai suoi alleati filosiriani, il Libano è una bomba innescata.
Una bomba pronta a esplodere tra le mani dei soldati italiani e del contingente internazionale schierato nel Sud del Libano. Ad aumentare la tensione contribuisce anche il generale francese Alain Pellegrini, comandante della missione Unifil. In un’intervista «ultimatum» al quotidiano Le Figarò, il generale non esclude una reazione dei suoi uomini in risposta ai continui sorvoli dei caccia israeliani. «Non lo escludo, il ricorso alla forza è contemplato dalle nostre regole d’ingaggio, ma rappresenta – spiega - l’ultima risorsa, prima è previsto un sistema graduale di risposta. A fine ottobre i nostri uomini hanno evitato l’incidente... Hanno preso le loro misure. Devono poter assicurare la propria autodifesa».
A fronte di giudizi estremamente duri sui sorvoli israeliani giudicati «inaccettabili» e definiti una «violazione della risoluzione 1701 sul cessate il fuoco», il generale usa toni distensivi nei confronti di Hezbollah. Ignorando le segnalazioni americane e israeliane sull’avviato riarmo delle milizie sciite, Pellegrini dichiara di non aver notato alcun segnale sulla ripresa dell’attività militare del Partito di Dio. A sentir il generale, i miliziani sciiti «sono più che discreti» e se «alcuni partigiani sono ancora là, mescolati alla popolazione, è perché abitano in quella regione». Insomma semplici abitanti del posto, fa capire Pellegrini, intenti «a osservare Israele così come osservano noi».
Di fronte a un comandante dell’Unifil che considera a casa propria i miliziani di Hezbollah schierati a sud del Litani, molti osservatori incominciano a interrogarsi sull’utilità di una missione decisa per ripristinare l’autorità governativa sui territori meridionali del Paese. In queste condizioni aumentano anche i timori di una replica degli scenari balcanici dove i «caschi blu» si trasformarono negli osservatori delle conquiste serbe. Lo scenario non è poi così azzardato. Hezbollah ha già dato il via al braccio di ferro con il governo di Siniora. Dopo averlo accusato di non garantire la sicurezza del Paese, il segretario generale del Partito di Dio Hasan Nasrallah e i suoi alleati tentano di costringerlo ad allargare la compagine governativa da 24 a 26 ministri e a concedere nove poltrone, rispetto alle cinque attuali, alle forze filosiriane.
La manovra è chiara. La costituzione libanese garantisce a un terzo dei ministri più uno di bloccare qualsiasi decisione del governo e di pretendere, dimettendosi in blocco, elezioni anticipate. Hezbollah e i suoi alleati puntano insomma a mettere sotto scacco Siniora. Ma l’esecutivo per ora non molla. Venerdì, dopo cinque giorni di trattative, il gruppo di Siniora e Saad Hariri, figlio del premier assassinato, i drusi di Walid Jumblatt e le forze cristiane loro alleate hanno opposto un secco «niet» ai filosiriani. Ieri per tutta risposta i cinque ministri di Amal e Hezbollah si sono dimessi in blocco. Siniora ha chiesto loro invano di ritirare le dimissioni. Così mentre il presidente del Parlamento e capo delle forze sciite di Amal, Nabih Berri, vola a Teheran, molti incominciano a interrogarsi suoi rischi di un epilogo drammatico.
Le condizioni e le scadenze ci sono tutte. Venerdì notte il governo Siniora ha ricevuto la richiesta delle Nazioni Unite di approvare il trasferimento a una Corte internazionale del processo sull’assassinio di Hariri. Hezbollah e i suoi alleati siriani contavano sul diritto di veto per bloccare il trasferimento del processo e anche per annullare la missione di disarmo delle milizie sciite affidata all’esercito libanese. Ora, l’unico in grado di bloccare il processo internazionale ed evitare il rischio di un’incriminazione del presidente siriano Bashar Assad è il compromesso presidente libanese Lahoud.
Ma il potere di veto dello squalificato capo di Stato da solo potrebbe non bastare.

Per sorreggerlo Hezbollah è pronto a scendere in piazza rispettando la promessa, già formulata da Nasrallah, di rispondere con massicce dimostrazioni a un mancato allargamento del governo. A quel punto il Libano si ritroverà sull’orlo di una guerra civile sotto gli occhi se non complici almeno indifferenti della missione Unifil.

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