Marzio G. Mian
I camion della Guinness che s'incrociano di continuo lungo la circonvallazione di Castlewellan, centro del Nord Irlanda d'oltreconfine provenendo da Sud, sono la più simbolica rappresentazione del cortocircuito in cui è piombata l'isola con le trattative tra Bruxelles e Londra per la Brexit. Prima di arrivare nei pub di tutto il mondo, la mitica Guinness passa il confine due o tre volte. Prodotta a Dublino, spedita a Belfast per essere confezionata, rispedita a Sud e, da qui, di nuovo in Nord Irlanda per raggiungere poi il Regno Unito e il resto del globo. Nessuna barriera, dogana, rallentamento. I camion viaggiano come se l'isola non fosse divisa da quei 499 chilometri di soft border; che è poi ciò che viene «venduto» al turista appena arriva all'aeroporto di Dublino: la foto che vuole comunicare la forza e la bellezza di questa terra di smeraldo è di uno struggente paesaggio del Nord.
Tra le due realtà la provincia britannica e la Repubblica - nulla a ricordare un passato di odio, sangue, divisioni; l'unico filo spinato segna i pascoli per le pecore nella brughiera, da una parte e dall'altra. Come quando si arriva a Derry, entrando e uscendo in continuazione da un limite invisibile che attraversa fiumi, campi, fattorie (te ne accorgi solo dai cartelli, chilometri a Sud, miglia a Nord): la fattoria di David Crockett si estende per oltre 120 ettari su entrambi i lati. «Come sarà possibile sopravvivere per noi agricoltori se si tornerà, come vogliono gli ultras di una Brexit radicale, alla chiusura delle strade di confine, alle dogane e ai dazi, alla reitroduzione dei pattugliamenti armati e delle torri di guardia smantellate al termine della guerra civile?», si chiede David.
Il ritorno di un confine fisico avrebbe ripercussioni enormi sul movimento di beni, persone (35mila i frontalieri che passano ogni giorno), sull'economia irlandese e più ancora nordirlandese, in particolare sul settore agricolo e alimentare. «Tutto il grano prodotto dall'Irlanda viene lavorato nel Nord», spiega l'allevatore, «mentre il 30 per cento del latte prodotto nel Nord è spedito in Irlanda per la produzione di latticini. Il 31 per cento dell'export nordirlandese va all'Irlanda e il 27 dell'import nordirlandese viene dall'Irlanda». Un milione di camion, come quelli della Guinness, 1,3 milioni di furgoni e 12 milioni di automobili transitano di qui ogni anno. Ora l'incubo è che questo diventi una sorta di «nuovo Vallo di Adriano», il limes tra Regno Unito e Unione europea. Una partita così cruciale che dal suo esito dipende l'entrata o meno in vigore della Brexit.
Sono passati vent'anni dagli accordi del Venerdì Santo che portarono alla fine dei Troubles, i «guai» come sono stati chiamati con eccessivo understatement tre decenni di conflitto in Nord Irlanda tra unionisti protestanti, propugnatori del legame con la Gran Bretagna (appoggiati dall'esercito di Sua Maestà), e nazionalisti cattolici in lotta armata per l'unificazione con la Repubblica irlandese: un odio che ha prodotto quasi quattromila morti. Quegli accordi di pace anglo-irlandesi sono stati un successo fino a diventare modello dalla Colombia a Cipro, dai Paesi Baschi alle Filippine. La violenza è via via diminuita, le relazioni tra unionisti e repubblicani, anche grazie ai massicci investimenti e ai progetti d'integrazione dell'Unione europea, hanno fatto passi da gigante, il confine che separava le sei contee del Nord è diventato invisibile. «La riconciliazione non era affatto garantita o imposta da quelle firme», ha detto all'Atlantic George Mitchell, allora inviato speciale di Washington e vero architetto degli accordi: «Erano contemplate due idee di futuro, gli obbiettivi politici delle due comunità erano entrambi validi, solo che dovevano essere percorsi in modo democratico e pacifico». Il confine potrebbe rimettere tutto in discussione.
Un recente sondaggio di Sky News ha confermato che la metà cattolica dei nordirlandesi non ha amici protestanti e viceversa. Una spaccatura che resiste ed è rappresentata anche a livello politico: se infatti gli accordi prevedevano un governo di coalizione tra gli unionisti del Dup e i repubblicani del Sinn Fèin, dal 2017 il patto è saltato e Belfast non ha un esecutivo proprio nel momento più delicato, quando cioè la Brexit minaccia di far crollare un pilastro del Good Friday Agreement, i confini aperti in base a una garanzia sottoscritta a suo tempo dall'Unione europea e ribadita nelle 120 pagine con cui Bruxelles si dice determinata a voler mantenere il Nord Irlanda nell'unione doganale europea e tutta l'isola nell'«area comune» in modo da impedire il ritorno al confine fisico. Il testo prevede una continuità pan-irlandese distinta dalla Gran Bretagna per quanto riguarda le dogane, la circolazione dei beni, l'agricoltura, l'ambiente, l'iva, gli aiuti di Stato e il mercato dell'energia. Addirittura sono previsti controlli doganali sulle merci che entrano nell'Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna.
Theresa May ha accusato l'Ue di voler smembrare il Regno, di fatto imponendo un confine marittimo con l'isola. «Questo non lo permetteremo mai», ha detto. E Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo ha replicato più o meno che o resta il confine aperto sancito dagli accordi del Venerdì Santo oppure salta la Brexit. Ma l'aspetto più inquietante è che i più determinati a ripristinare il confine sono gli unionisti del Dup, tra l'altro determinanti alleati della May a Westmister. «Qualsiasi ambiguità rispetto al legame del Nord Irlanda con il Regno Unito, per i protestanti del Dup vuol dire creare i presupposti per un'Irlanda unita. E questo risveglia vecchi fantasmi», dice al Giornale Katy Hayward, politologa alla Queen's University di Belfast. «Ma l'ambiguità è insita negli accordi di vent'anni fa dove si contempla la possibilità di un'Irlanda unita se la maggioranza degli abitanti del Nord e della Repubblica lo decidessero con due referendum. Non dimentichiamo che il 56 per cento del Nord ha votato remain. Ecco perché dopo il fatidico 29 marzo 2019, quando la Gran Bretagna uscirà dalla Ue, potrebbe aprirsi anche un altro scenario, reso sempre più verosimile dai recenti sviluppi politici, economici e demografici, quello della riunificazione. Gli unionisti lo sanno, e non intendono permettere che si annacqui l'identità britannica in favore di una nazionalista. L'hard border è per loro argine psicologico vitale».
Per i repubblicani cattolici il ripristino di un confine fisico significa invece riportare indietro l'orologio della Storia, una violazione delle legittime aspirazioni. E questo riaccende il fuoco identitario. Un'incertezza sul futuro che può alimentare antiche divisioni. A partire dal luogo simbolo degli anni di piombo in Nord Irlanda, la città dalla doppia drammatica identità, Derry/Londonderry. Nelle sue strade si consumò il Bloody Sunday il 30 gennaio 1972, quando l'esercito britannico aprì il fuoco contro una folla di manifestanti cattolici per i diritti civili uccidendone 14. Derry la chiamano i cattolici, Londonderry dicono i protestanti. La parte della città a ovest del fiume si considera Irish, la parte a est British. I murales sono ancora lì a ricordare, ad ammonire. «Londonderry still under siege, no surrender», Londonderry ancora sotto assedio, non si arrende. «I Troubles non sono finiti», dice John, 37 anni, «anche se non ci sono le bombe, i morti». La violenza settaria non ha in realtà mai del tutto abbandonato la piccola provincia britannica. Soltanto negli ultimi mesi molte famiglie cattoliche di Belfast sono state costrette a evacuare le loro case in seguito alle intimidazioni dei paramilitari lealisti, mentre a Derry e in altre località sono stati ritrovati e disinnescati gli ordigni rudimentali dei gruppi dissidenti contrari al processo di pace. Ma il tragico simbolo di una fiducia inter-comunitaria che ancora stenta a decollare sono i cosiddetti «muri della pace», le orwelliane barriere di cemento e lamiera erette negli anni Sessanta per prevenire le violenze e che continuano a separare molti quartieri.
Nei giorni scorsi è uscita un'analisi dell'Esri, istituto indipendente di Dublino, secondo cui il ripristino della frontiera scuoterà le fondamenta del processo di pace. Anche per il venir meno dei fondi europei che nell'ultimo decennio hanno fatto nascere centinaia di progetti di riconciliazione. Ecco perché Bruxelles non intende diventare complice di un tragico ritorno al passato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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