Linea inesistente

Tanti i dubbi sulla politica estera del governo Prodi. Ma l’interrogativo principale è sul ruolo (da protagonista, defilato, subalterno, di mediazione) che s'intende giocare nello scacchiere internazionale. La risposta che si dà - agire in piena sintonia con l'Europa - è una non risposta: i Paesi membri, dotati di un minimo peso, svolgono nell'Unione una loro funzione soggettiva che poi contribuisce a determinare orientamenti più generali. Continuare a dire che la «nostra posizione» è quella «dell'Europa» significa ridursi all'insignificanza, ad assumere l'atteggiamento di una Finlandia o di un Lussemburgo, Stati che non hanno bisogno di una politica estera né aspirano a determinare quella dell'Unione.
Nei fatti quello che abbiamo fatto è stato prima di tentare di allinearci a Berlino, poi quando Angela Merkel ha aperto a Washington, siamo corsi dietro ai francesi. Ha senso questa posizione? Parigi è l'erede di un asse con Gerhard Schröder che da un parte è finito nell'ingloriosa consulenza alla Gazprom dell'ex Cancelliere, dall'altra è sospeso in attesa che venga liquidata dal voto alle presidenziali (sia che vinca il «destro» Nicholas Sarkozy o la «sinistra» Ségolène Royal) la fallimentare eredità di Jacques Chirac. Correre dietro ai francesi come ha fatto Massimo D'Alema prima al G8, poi criticando la risposta d'Israele alle aggressioni di Hamas e degli Hezbollah, è peggio che una scelta eticamente sbagliata, è una scemenza diplomatico-politica. E lo si comprende bene dal comportamento di un altro «asino» in politica estera, lo spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero, che dopo essersi accorto di avere buttato a mare l'eredità di influenza internazionale di José Maria Aznar e, in parte, dello stesso Felipe Gonzalez, proprio sul caso Israele fa da sponda agli americani. Ci possono essere visioni diverse del rapporto con gli Stati Uniti: c'è chi pensa a un'Europa (dalle Borse alla Nato) più integrata, chi a una più autonoma. Ma nessuna persona di buon senso ritiene che senza un asse tra Washington e il Vecchio continente, il mondo possa trovare un qualche equilibrio. E, in questo senso, svolgere una funzione di mediazione tra europei e americani offre di per sé un ruolo di primo piano. Alla fine, le grandi capitali dell'Unione giocano innanzi tutto per avere la leadership proprio in questo ruolo, quello del rapporto con Washington.
Sprecare le proprie chance per correre dietro a un Oliviero Diliberto, un Salvatore Cannavò o un Paolo Cento, è una scelta da irresponsabili. Eppure è quello che sta avvenendo. E questa nostra «non linea» di politica estera (dall'Irak all'Afghanistan, da Israele all'Iran), tra la propaganda, la furbata e la testimonianza sta già dando i suoi frutti avvelenati. Al di là di tutti i giochetti della grande stampa «indipendente» per sostenere Tommaso Padoa-Schioppa, è evidente come Joaquin Almunia si permetta nei confronti del nostro ministro dell'Economia toni che non usava con Giulio Tremonti, uno che la politica «europea» la costruiva, non se la faceva solo imporre.
Se passiamo dalle grandi questioni politiche a quelle simboliche, si constata come anche il campionato mondiale di calcio sia stata occasione per grandi offese all'Italia. Alla fine, siamo stati formidabili grazie ai Buffon, ai Cannavaro, ai Lippi.

Ma abbiamo subito gravi insulti da Franz Beckenbauer, da Joseph Blatter (che non ha partecipato alla premiazione), da Chirac che ha glorificato quel teppista di Zinedine Zidane. Fatti minori rispetto alla gioia della coppa ma che indicano con chiarezza le misure prese all'Italia di Romano Prodi.

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