ROMA - Se Mediaset si interessasse alla carta stampata «credo che sarebbe un passo ulteriore gravissimo della nostra economia e del nostro sistema di vita». Cesare Romiti, presidente onorario di Rcs, ha usato toni apocalittici per descrivere a Sky Tg24 l'eventualità che, al termine del periodo di divieto di incroci stampa-tv allungato dal Milleproroghe al 31 marzo prossimo (ma un ordine del giorno approvato ieri al Senato ne chiede il prolungamento fino al 2012), Mediaset possa fare il proprio ingresso nel mondo dei quotidiani o dei periodici. Secondo Romiti, peggiorerebbe il «sistema di libertà» garantito dai giornali italiani.
Il quasi ottantottenne Romiti ha attaccato a testa bassa il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che pure aveva bollato l'ipotesi di un acquisizione di quote di Rizzoli-Corriere della Sera come «stupidaggini». «Non ci credo - ha detto Romiti - perché quando uno fa queste dichiarazioni dietro chissà cosa ha». Dichiarazioni che lasciano spazio a quelle dietrologie che non hanno mai fatto parte del modus operandi romitiano. Cresciuto alla scuola di Enrico Cuccia, l'ex ad di Fiat ha parlato sempre coi fatti più che con le parole.
E invece Romiti ha dispensato una ramanzina anche agli attuali azionisti di Via Solferino: «C'è un po' di turbolenza. Finché sono rimasto in Rcs abbiamo fatto sì che ci fossero pochi azionisti perché in pochi si governa meglio e nessuno di loro allora si era introdotto nei giornali», ha sottolineato aggiungendo che «oggi non è più cosi, allora facevamo diversamente».
Rcs per Romiti è una ferita ancora aperta. Diventa allora credibile interpretare l'attacco alla holding televisva della famiglia Berlusconi come un modo per scacciare il dolore. Sono passati quasi sette anni da quando il manager fu costretto a cedere la maggior parte della propria quota agli altri soci del patto per fronteggiare l'emergenza finanziaria che si era aperta in Gemina a causa di Impregilo e di Adr. Emergenza che si risolse compiutamente con l'ingresso di una nuova compagine guidata dai Benetton alla testa della finanziaria e delle sue controllate operanti nel settore delle infrastrutture e in quello aeroportuale.
Non è dietrologia, ma costituisce un fatto la neutralità del governo Berlusconi all'epoca di quel tumultuoso passaggio. Una neutralità che segna il doveroso confine tra il mondo della politica e quella della finanza e dell'imprenditoria. Un confine che in Italia, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, è stato troppe scavalcato dai governi di centro-sinistra. Che, se fossero stati in carica, anche in quell'occasione avrebbero trovato modo di aiutare gli amici e penalizzare i nemici.
Silvio Berlusconi, invece, non ha mai caratterizzato la sua attività di governo in maniera «interventista» anche quando parte della sua maggioranza gli chiedeva una nazionalizzazione parziale della Fiat pericolante del 2002. Lo stesso piano anti-crisi del 2009 nei confronti delle banche si è strutturato nella forma dei Tremonti-bond per garantire prestiti alle famiglie e alle imprese e non come ingresso nel capitale degli istituti di credito.
A questo modo di pensare si contrappone quello di Romiti che oggi non disdegna anche la critica politica nei confronti di un presidente del Consiglio al quale in passato è stato tutt'altro che ostile. Il premier «doveva chiamare il ministro della Pubblica istruzione e costringerla a dimettersi», ha detto a proposito delle ultime affermazioni di Berlusconi sulla scuola pubblica.
Scriveva Cicerone nel «De senectute» che si combatte il passare degli anni non cedendo all'inerzia. Anche quell'inerzia antiberlusconiana cui Cesare Romiti da un po' di tempo indulge.
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