Sebbene «l'Intifada dei coltelli» continui da ormai più di un mese alla media di due-tre attacchi al giorno - ma con tendenza decisamente decrescente nell'ultima settimana - i turisti che nonostante i titoli drammatici di giornali e televisioni continuano ad arrivare in Israele e si avventurano nelle viuzze della città vecchia per raggiungere il Santo Sepolcro o visitare i suoi quattro quartieri (ebraico, arabo, cristiano, armeno) non si accorgono praticamente di nulla. Sì, ci sono un po' più di poliziotti in giro, alcune botteghe sono chiuse e passando da un settore all'altro si respira un po' di tensione, ma nulla di paragonabile a quanto accadeva in occasione della seconda intifada, quella dei kamikaze e delle bombe. Perfino l'accesso alla Spianata del Tempio, dove sorge la moschea di Al Aqsa e il cui status è, formalmente, all'origine della rivolta, si svolge normalmente, con al massimo qualche ritardo. Buona parte dei posti di blocco istituiti nei giorni caldi sono stati rimossi. L'epicentro della «insurrezione» dei cosiddetti lupi solitari sembra essersi trasferito in provincia, ed in particolare ad Hebron, città sacra a entrambe le religioni già in passato teatro di massacri reciproci tra ebrei e palestinesi. Ma, per il momento, la guerra più feroce è condotta dai palestinesi sui social network, con il triplice effetto di raddoppiare l'inquietudine degli israeliani, di incitare un numero sempre maggiore di giovani a passare all'azione, secondo lo slogan «Non c'è niente di meglio di un pugnale piantato nella testa di un ebreo» (alcuni suggeriscono anche di avvelenarlo) e di influenzare la stampa straniera.
Questa offensiva mediatica di glorificazione degli attentati e di incitamento all'odio è condotta con tutti gli strumenti possibili e immaginabili, e con un'abilità degna di miglior causa. C'è un hashtag che riproduce un corpo umano e indica ai potenziali assalitori dove è più efficace piantare il coltello. C'è la glorificazione dei «martiri» uccisi dalle forze di sicurezza dopo gli attentati. Inoltre, per oltre tre settimane dopo i primi accoltellamenti, Abu Mazen non ha pronunciato una sola parola di deplorazione, ordinando nel contempo alla sua polizia, che da anni collabora con Israele nel mantenere l'ordine in Cisgiordania, di assumere un atteggiamento più ambiguo e distaccato. Per screditare Israele, si è perfino inventato che prima di restituire alle famiglie i corpi dei palestinesi uccisi negli scontri, venivano sottratti loro gli organi. Ancora più bellicosa è stata, naturalmente, la posizione assunta da Hamas, i cui esponenti hanno incoraggiato apertamente l'intensificazione dell'intifada e uno dei cui esponenti, Subhi al Yaziy, ha pronunciato una specie di fatwa: «Tutti gli ebrei in Palestina sono un bersaglio legittimo, compresi le donne e i bambini. Noi non vogliamo vivere accanto a voi, vogliamo cacciarvi e uccidervi». La successiva entrata in scena dell'Isis, che ha cominciato a diffondere sui social network filmati incendiari in ebraico minacciando sfracelli, non ha certo contribuito a rasserenare il clima. Da ultimo, è tornato alla ribalta anche Al Zawahiri, il successore di Bin Laden alla guida di Al Qaida, con l'esortazione a continuare gli attacchi fino alla eliminazione dell'ultimo ebreo. Mentre la propaganda palestinese è pressoché unanime e sempre bene orchestrata (ha trovato una scappatoia anche quando Abu Mazen ha preso la cantonata di accusare le forze di sicurezza di avere«giustiziato sul campo» un assalitore di 15 anni, che invece era ricoverato e curato in un ospedale di Gerusalemme ovest) non si può dire altrettanto del campo israeliano.
Come accade inevitabilmente in una democrazia in una situazione del genere, l'opinione pubblica, i giornali e le televisioni sono divise sul modo in cui Israele deve reagire alla nuova offensiva. I quotidiani della destra, con in testa il Jerusalem Post, sono schierati al cento per cento con il premier Netanyahu, quelli della sinistra, e soprattutto Haaretz (che venendo distribuito in edizione inglese con il New York Times è particolarmente influente) non perdono occasione per attaccarlo, attribuendo almeno una parte della responsabilità di quanto sta accadendo alla mancanza di qualsiasi progresso nelle trattative, alla durezza della occupazione e alla sua decisione di continuare, sia pure su scala molto minore dei suoi predecessori, con la politica degli insediamenti che l'Occidente gli rinfaccia. In un articolo si sottolineavano le condizioni particolarmente disagiate dei 200mila«arabi di Gerusalemme est (dove la rivolta è nata), trascurati se non proprio vessati dalla municipalità israeliana, abbandonati dalle autorità palestinesi di Ramallah e ridotti in buona parte a vivere sotto la linea di povertà. Secondo un sondaggio, il 61% sarebbe favorevole a riprendere la lotta armata, anche se poi, paradossalmente, il 52% vorrebbe ottenere la piena cittadinanza israeliana, per beneficiare, come gli 1,6 milioni di arabi che già si trovano in questa condizione, della rappresentanza nella Knesset e soprattutto dei generosi benefici sociali e delle cure mediche gratuite elargiti dallo Stato ebraico.Una polemica particolarmente feroce tra i giornali delle opposte fazioni è nata quando il premier, nel tentativo di sottolineare le responsabilità delle autorità palestinesi, ha sostenuto, per la verità in base a testimonianze storiche alquanto fragili, che fu il Gran Mufti di Gerusalemme, Al Husseini, grande amico della Germania nazista e successivamente «patrono» di Arafat, a convincere Hitler a ordinare lo sterminio anziché la deportazione degli ebrei, rendendosi così direttamente responsabile dell'Olocausto. Apriti cielo.
L'opposizione ha accusato Netanyahu di avere commesso un deliberato falso storico, costringendolo a un'imbarazzante ritrattazione, e non ha mollato la presa neppure quando autorevoli studiosi, pur negando la rilevanza del colloquio del 1941 tra Hitler e Husseini, hanno ricostruito nei particolari il ruolo infame del Gran Mufti durante la guerra, il suo sostegno alle camere a gas e la sua implacabile opposizione alla nascita di uno stato ebraico in Palestina, anche dopo che questa fu sanzionata dall'Onu.Dove la propaganda palestinese ha nettamente surclassato quella israeliana, è sul problema dello status della Spianata del Tempio, che ha innescato il conflitto. Le regole, che sono in vigore dal 1948, quando i luoghi sacri erano territorio giordano, stabiliscono che solo i musulmani sono autorizzati a pregarvi, mentre i seguaci di tutte le altre religioni devono limitarsi a una visita turistica. In seguito a una serie di piccoli incidenti e di provocazioni reciproche, l'Autorità palestinese ha lanciato a Netanyahu l'accusa di volere modificare lo statuto del luogo santo, autorizzando anche gli ebrei, che identificano nella Spianata il luogo dove sorgevano il primo e il secondo Tempio, a sostarvi in preghiera. Il premier ha immediatamente smentito, e per evitare incidenti ha perfino vietato ai membri del governo e ai parlamentari di recarsi sul luogo. Tutto inutile. Le accuse di Abu Mazen hanno trovato ampio credito nell'intero mondo islamico (e non solo), contribuendo a infiammare gli animi. Per cercare di placarli, è stato chiesto l'intervento del re di Giordania, tuttora custode della Spianata, il quale ha proposto di installarvi delle telecamere che registrassero tutto ciò che vi avveniva; ma i palestinesi - che evidentemente hanno un po' di coda di paglia - si sono opposti. Anzi, hanno alzato il tiro, sostenendo che gli ebrei non dovrebbero avere neppure il diritto di pregare al Muro del Pianto, unico avanzo del Terzo tempio, che si trova proprio sotto la moschea di Al Aqsa. E, per buona misura, hanno intensificato la loro vecchia campagna tesa a dimostrare - contro ogni evidenza storica ed archeologica - che gli ebrei non hanno alcun legame con Gerusalemme e che perciò il loro controllo della città è una prevaricazione nei confronti dei musulmani. La reazione agli eventi dell'Europa, che anche in questo caso non ha nascosto la solita simpatia per la causa palestinese e di conseguenza ha addossato la responsabilità a entrambi i contendenti, ha irritato buona parte dell'opinione pubblica, compresa quella contraria a Netanyahu e tuttora votata alla soluzione dei due Stati.
Gli israeliani si sentono incompresi nel loro timore di essere travolti dal fanatismo jihadista, ingiustamente discriminati per non volere rientrare nelle (indifendibili) frontiere del '67 e vittime indirette dell'ondata di antisemitismo che, a settant'anni dall'Olocausto, sembra avere di nuovo investito il nostro continente. Si sono infuriati quando Federica Mogherini, «ministro degli Esteri» dell'Ue, ha ascoltato senza ribattere le menzogne di Abu Mazen sulla Spianata del Tempio e per la recente decisione di Bruxelles di «etichettare», con una specie di riedizione della famigerata stella gialla, i prodotti delle aziende israeliane che operano nei Territori (senza tenere conto che operano in prevalenza con personale palestinese, che ora rischia di restare senza lavoro). Soprattutto, la maggioranza non comprende come l'Ue non capisca che Israele è l'unico bastione della democrazia nel Medio Oriente, continui a finanziare lautamente l'Autorità palestinese senza pretendere da lei nemmeno la fine dell'istigazione all'odio e consideri un crimine imperdonabile che Gerusalemme continui a costruire 1.500 alloggi l'anno oltre la «linea verde» (Rabin, oggi descritto in Occidente come il campione della pace, ne costruiva 6.000).
Con tutto ciò, il Paese continua a vivere, a prosperare e, a dispetto della futura (probabile) atomica iraniana e dell'incubo Isis, a credere nel futuro.
Basta affacciarsi alle finestre dell'albergo che danno sul lungomare di Tel Aviv per rendersene conto. «Ci abbiamo messo duemila anni per tornare qui - mi dice un ragazzo, sentite le domande che facevo sulla situazione - e nulla, nulla, nulla potrà più cacciarci via».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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