La lotta di Montezemolo, il patriota non partigiano

Non fosse per la morte alle Fosse Ardeatine, il nome del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo nemmeno figurerebbe, forse, nelle storie della Resistenza italiana. Eppure fu a Roma, fino alla cattura per volontà dei tedeschi - ma effettuata da poliziotti italiani - il capo d’una organizzazione clandestina formata in larga parte da ufficiali delle regie Forze armate. Con l’8 settembre l’apparato militare italiano, in apparenza imponente e nella sostanza debolissimo, s’era squagliato. Ma nelle sue file si contavano uomini valorosi che intrapresero la lotta agli occupanti nazisti. Fu questa la meno ricordata tra le resistenze di quel tempo terribile. A chi la guidò Mario Avagliano ha dedicato una biografia edita da Dalai (Il partigiano Montezemolo, pagg. 401, euro 22, prefazione di Mimmo Franzinelli).
Ho usato il plurale «resistenze» perché ce ne furono almeno tre. Quella, al Nord, di chi combatteva contro le truppe di Hitler e contro le formazioni di Salò nel nome dell’indipendenza nazionale e della democrazia. Poi quella delle formazioni comuniste che volevano sì cacciare lo straniero e la sua efferata ideologia, ma - implicitamente o esplicitamente - per sostituirli con uno straniero e una ideologia opposta, e non meno efferata. Infine la resistenza prettamente militare che dalle sinistre sarebbe stata bollata come badogliana: e che si batteva per onorare il giuramento di fedeltà al Re e per affermare valori tradizionali. «Noi non siamo partigiani, noi siamo patrioti» ebbe a dire Montezemolo. Che interpretò quel filone resistenziale con coraggio e con intelligenza, fino all’estremo sacrificio.
Giuseppe, dai familiari chiamato Beppo - lo stesso nomignolo che la regina Elena usava per il figlio Umberto - era nato a Roma, nel 1901 in una famiglia di antica nobiltà gremita di ufficiali e votata al servizio dello Stato e della corona. L’infanzia e la giovinezza Montezemolo le trascorse tuttavia a Torino. L’impronta sabauda lo segnò per sempre. A 17 anni fu alpino volontario nella Grande Guerra, ed ebbe il battesimo del fuoco. Quindi si laureò in ingegneria, e iniziò la carriera militare, distinguendosi per la serietà, la competenza, l’onestà. Anticomunista convinto e, con la numerosa famiglia, cattolico praticante, partecipò con il corpo legionario voluto da Mussolini alla Guerra civile spagnola. Non era uno sfegatato sostenitore del regime e neppure un critico. Educato alla disciplina, svolse i suoi compiti in modo lodevole anche in occasione di incontri italo-tedeschi. Ci sono fotografie che lo ritraggono, altissimo e magro, mentre stringe la mano a Hitler. Dal quale ebbe la croce di ferro di prima classe.
Dopo l’intervento del 10 giugno 1940 molte sue illusioni caddero, i 45 giorni badogliani lo videro al fianco del maresciallo. Deplorava gli errori del Ventennio, ma senza infierire. «Non è il caso di tornare ad allagare apposta le paludi pontine» ripeteva spesso. Dopo l’8 settembre ebbe un ruolo non minore nelle drammatiche trattative con i tedeschi perché a Roma fossero evitati lutti e rovine. Finito anche quell’umiliante e convulso interregno Cordero di Montezemolo passò alla clandestinità e si dedicò alla formazione d’un corpo di ribelli con le stellette che - a differenza del Cln- mantenne fin da subito stretti rapporti di subordinazione al governicchio di Brindisi. Quel corpo fu contrassegnato dalla sigla Fmcr(Fronte militare clandestino di Roma) Finché rimase in libertà Montezemolo ne fu l’anima e il cervello, sopravanzando per autorevolezza alcuni generaloni tronfi e incapaci. Il Fronte aveva contatti con le altre resistenze. Buoni per non dire ottimi quelli con i comunisti come Giorgio Amendola; pragmatici e pronti a collaborare, come da direttive dell’Urss e di Togliatti. Invece attriti continui con la resistenza di stampo socialista e azionista, chiusa nei suoi recinti dogmatici. Un atteggiamento testimoniato da Giorgio Bocca, nella sua Storia dell’Italia partigiana con il seguente passaggio: «Gli autonomi sono dentro la Resistenza unitaria che è politica di rinnovamento del Paese: Montezemolo e i suoi sono fuori, a volte contro il movimento unitario, non ne condividono la politica, tentano una concorrenza di tipo decisamente reazionario». La partigianeria del nord snobbava o addirittura esecrava chi si esponeva in una Roma che secondo estremisti come Bentivegna, l’attentatore di via Rasella, sarebbe insorta contro l’occupante, e non insorse mai.
È vero che Montezemolo aveva, insieme a un primo obbiettivo (la liberazione dai tedeschi) un secondo obbiettivo: far sì che il trapasso dei poteri, quando arrivassero gli angloamericani, fosse ordinato, e vigilato da uomini del Fmcr. Dal che derivava un dissidio netto con il Cln.
L’ora X di Roma parve imminente nel gennaio del 1944 quando gli alleati sbarcarono ad Anzio in una operazione cui era stato dato il nome di «gatto selvatico» e che invece divenne - parola di Churchill - una balena arenata. Montezemolo sentiva che la tenaglia nazista stava per afferrarlo. Con baffi e occhiali cercava di camuffarsi. Ma il 26 gennaio fu catturato, insieme ad altri elementi del movimento militare di liberazione. Portato nel famigerato carcere di via Tasso vi fu percosso e torturato. Lo aveva tradito, secondo rivelazioni recenti, un altro componente -e tra i più autorevoli- del Fmcr,il monarchico Enzo Selvaggi. Colui che ideerà il ricorso in Cassazione contro l’esito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, favorevole alla Repubblica. Arrestato e torturato o minacciato, Selvaggi cedette segnando, con la sua delazione, la sorte di Montezemolo. Molti e vani furono i tentativi della moglie Juccia -rivoltasi anche al Papa- per ottenere il rilascio del colonnello. Finché il 23 marzo la bomba messa da Rosario Bentivegna falciò 32 soldati del battaglione Bozen. Seguì l’atroce rappresaglia, con centinaia di vittime tratte in larga parte dalle carceri: tra esse Montezemolo. Secondo una testimonianza di Bentivegna «le armi, gli esplosivi e le bombe Brixia ci venivano fornite dal Fronte di Montezemolo. Non ci siamo mai sentiti contrapposti ai militari».

Montezemolo avrebbe dunque procurato agli attentatori la carica esplosiva che fu causa del suo sacrificio.
Da via Tasso Montezemolo scrisse: «Se tutto andasse male Juccia sappia che non sapevo di amarla tanto. Rimpiango solo lei ed i figli».

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