Va bene tutto, la cultura locale, l’identità, le radici, le tradizioni. E passi lo stemma della Regione cucito sulla maglia dei calciatori, come auspicato dal ministro alle Politiche Agricole Luca Zaia, scampolo del simbolismo che negli Stati Uniti inizia alle elementari con l’alzabandiera e l’inno nazionale cantato tra i banchi, forieri dell’amor di patria e del senso dello Stato che a noi italiani troppo spesso mancano. Per carità, va benissimo riaffermare certi valori come l’attaccamento al territorio e alla propria storia. Ma ve lo immaginate il conduttore di un tg regionale che dovesse leggere le notizie in dialetto veneto? «Ghe xé una notissia rivà ’desso in redaxion, ghe xe stà un mato che gà sparà con lo sciòpo dal campanie de Trebaseeghe». Ma per favore, manca solo un’«ombra» in diretta e siamo a posto.
Non sembrerebbe un telegiornale e nemmeno una fiction pseudo goldoniana ma puro cabaret, gag da avanspettacolo, altro che informazione locale, con la gente piegata in due dal ridere. E diventerebbe ancora più comico nelle cronache politiche «Galan gà dito a Cacciari che xè l’ora di finirla con tute quee monàde» e via dicendo.
Sostiene Zaia che i telegiornali locali, in particolare il Tg3, hanno il dovere di insegnare il veneto ai veneti, l’emiliano agli emiliani, il siciliano ai siciliani. Propedeutici sarebbero anche «Il commissario Montalbano» in siculo, «Un posto al sole» in partenopeo, «Nebbie e delitti» in romagnolo, con sottotitoli in italiano. Vogliamo che i giovani imparino il dialetto quando molti di loro si esprimono così: «Se andrei all’università mi laureerei», oppure «quell’uomo è stato folgorato sulla via di Tabasco». All’esame di maturità uno studente, alla domanda «quale garibaldino represse con durezza la rivolta contadina a Bronte?», ha risposto «Biperio». Avrebbe dovuto dire Nino Bixio ma il suggerimento del compagno di classe via sms «bi x io» può trarre in inganno chi oggi comunica soltanto digitando messaggini sul cellulare. Questo, si dice, è sintomo del livello medio di preparazione nelle nostre scuole. Ma anche nei giornali, nelle radio e nelle televisioni locali non brilliamo. C’è ancora chi scrive «un alpino» con l’apostrofo e «siringa» con la acca. E ai mondiali di atletica di Berlino si usava allegramente l’aggettivo «muscolato», bei tempi quelli delle telecronache serie, asettiche e tecnicamente ineccepibili di Paolo Rosi.
Svarioni e scivoloni linguistici sono sempre in agguato. E noi che non abbiamo ancora sufficiente dimestichezza con il congiuntivo dovremmo dare la precedenza al dialetto? Ma non mi facci ridere, avrebbe detto Totò. Ci sono artigiani vicentini che intervenendo ai convegni dicono disinvoltamente «molestia a parte», «la mia azienda ha molte lagune», «la sacra sindrome», «io mi auspico», «lo vedrò con le mie mani», «tutto questo ci tornerà indietro come un bungalow», con il boomerang che va a farsi benedire. Intanto siamo qui a dannarci sull’importanza di rendere obbligatorio lo studio del dialetto nelle scuole e sul valore lessicale di un tg in salsa veneziana, torinese, palermitana e quant’altro. Oltretutto bisognerebbe trovare giornalisti in grado di parlare in dialetto, che non è da tutti. E non basterebbe nemmeno un «gobbo» modificato perché non c’è romano catapultato in Liguria che possa parlare magnificamente il genovese e viceversa (sfido per esempio chi non sia stato qualche anno a Genova a pronunciare correttamente gli insulti «strassu de lavellu» e «fiju do mustru»). Conoscere perfettamente il dialetto, dice il grande violinista Uto Ughi, è come saper leggere uno spartito.
E quindi il tg regionale dialettale è una provocazione, una boutade estiva. Anche perché il dialetto cambia non solo da regione a regione ma da provincia a provincia. Ragazzo si dice «fio» a Venezia, «buteo» a Verona, «ceo» a Treviso , «toso» a Padova, che facciamo, tante edizioni di tg provinciali con rispettivi idiomi? E che dire di quelle parti del Bel paese in cui la lingua pochi chilometri più in là può sembrare arabo? In Alto Adige esiste già un’edizione ladina del Tg3, ne vogliamo fare anche una in catalano per la sola zona di Alghero?
Il dialetto si impara in famiglia, si assimila nei bar e nelle strade dei paesi in cui si nasce e si cresce, e per molti italiani è il vanto e l’orgoglio perché fa provare un forte senso di appartenenza. Non sarebbe giusto imporlo a chicchessia, specie a quanti, per esempio, sono nati in un posto e poi si sono trasferiti con i genitori altrove. Perché dovrebbero studiare e parlare un altro dialetto e non il loro? E che bisogno c’è di diffonderlo via etere? O di boicottare il romanesco dei «Cesaroni» o di «Tutti per Bruno»? La televisione ha di bello il telecomando, se un programma non garba basta cambiare canale.
I nostri ragazzi incollati a Internet e alla televisione non devono imparare il dialetto, ma l’inglese. Con il dialetto non andrebbero da nessuna parte. A loro domani non servirà parlare il meneghino, il napoletano o il calabrese, ma la lingua della perfida ma utilissima Albione. Chissà, forse una farsa in dialetto risolleverebbe gli ascolti delle disastrate reti televisive di De Benedetti, null’altro.
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