La macchina da guerra inceppata

La macchina da guerra inceppata

Anche sul caso Quirinale, quello che sconcerta nelle prese di posizione dei Ds è la mancanza di autorevolezza. Le richieste quasi imploranti di Piero Fassino di evitare pregiudiziali sui candidati della Quercia. Le riflessioni tutte metodologiche su come si dialoga con il centrodestra. Le argomentazioni astratte su come il partito di più peso nella maggioranza (maggioranzinina) debba avere qualche incarico istituzionale. Un tempo Palmiro Togliatti definì il Pci «puer robustus ac maliziosus», ragazzo capace di usare forza e astuzia. Ora «la forza» i diessini l'agitano astrattamente senza sapere mai come esercitarla. E quanto all'astuzia pare proprio inesistente sotto le fronde della Quercia. Dopo avere assistito inebetiti all'attacco di alleati e stampa amica contro l'Unipol, dopo essere passati dal «siamo il primo partito con il 25 per cento dei voti» al poco più del 17 per cento, sotto a Forza Italia e al livello dei peggiori risultati del Pci-Pds-Ds, gli uomini di Fassino si sono fatti sfilare la presidenza della Camera (che pure - dice Fassino - gli avevano promesso nove mesi fa), hanno fatto da ascari spaesati nella vicenda dell'elezione di Franco Marini, stanno facendo una figuraccia nella composizione del prossimo governo (D'Alema entra solo se sarà il primo, allora esce Fassino, allora non entra D'Alema e così via).
Com'è successo che una tradizione forse diabolica ma mai ingenua, è finita in questo modo? Nei vecchi tempi nessun membro del Pci avrebbe firmato cambiali in bianco a un Romano Prodi senza avere sicurezze su materie come Unipol o ancor più la presidenza della Camera. Appena chiuse le urne i vecchi comunisti avrebbero preso una qualche iniziativa, magari un po' doppia come nello stile della casa, ma efficace, per porsi al centro della trattativa inevitabile con il centrodestra. C'è stato un qualche Gavino Angius che ha detto che forse una delle presidenza delle Camere poteva andare al centrodestra ma nessuno l'ha seguito. D'Alema ha dato un'intervista intelligente sul Corriere della Sera ma è parsa più una mossa di Paolo Mieli per recuperare i rapporti con un avversario che non si era riusciti a distruggere, che un atto del presidente dei Ds verso Silvio Berlusconi. Fausto Bertinotti li incalza da sinistra, Francesco Rutelli nei rapporti con il piccolo establishment, i postcomunisti si impennano se offesi ma non sanno svincolarsi dalle trappole in cui s'infilano. Rispetto a loro, ormai, persino Prodi appare uno sperimentato politico.
Perché non sono corsi a offrire il Senato al centrodestra, dimostrando con una mossa chiara la volontà di non prevaricare i rapporti di forza che il popolo aveva segnato con il voto? Questa sarebbe stata (ed è) l'iniziativa spiazzante che avrebbe aperto a D'Alema la via al Quirinale. Ora sono lì, incerti, tentati di fare eleggere il presidente del partito con la metà dei voti più uno e con la militarizzazione del centrosinistra: tutti a votare Massimo on. D'Alema, D'Alema on. Massimo, onorevole D'Alema, onorevole Massimo D'Alema. Con qualcuno che scrive Max D'Alema perché vuole un posto da sottosegretario.


La lunga storia della Repubblica ricorda che a parte Luigi Einaudi su cui pesò il clima dell'immediato dopoguerra, gli altri presidenti eletti da maggioranze piccole e omogenee, Antonio Segni e Giovanni Leone, sono stati i più contrastati: perché chi deve unire il popolo deve avere larghi suffragi. Ma com'è che si è arrivati a questo punto? Si parlava un tempo del ruolo delle personalità nella storia. Oggi anche le impersonalità hanno un loro peso. Sia pure quello di Fassino.

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