Madre, figlia e un confronto senza fine

Il cinema di Ingmar Bergman, caparbio indagatore delle malattie che da sempre indeboliscono i rapporti familiari e i legami affettivi, possiede una teatralità di fondo fatta di situazioni agite al chiuso, di dialoghi rivelatori e conflittuali, di pause pregne di significato, di tensioni emotive che - lungo quella robusta tradizione nordica cui appartengono anche Ibsen, Strindberg, Norèn e Fosse - non mirano a un’esplosione quanto, piuttosto, a uno svolgimento imploso. A una sorta di catastrofe tragica che non si traduce necessariamente in un cambiamento o in una risoluzione ma che preferisce lavorare in sordina, negli abissi della psiche. Ben vengano dunque allestimenti come questa struggente Sinfonia d’autunno che Maurizio Panici presenta all’Eliseo solo fino a domani. Ispirandosi all’omonimo film del ’78, interpretato da Ingrid Bergman e Liv Ullmann, il regista realizza uno spettacolo sobrio, pulito, armonioso, dove la resa dei conti tra una madre egocentrica e distante, Charlotte, e una figlia capace di enorme umanità, Eva, trova in Rossella Falk e Maddalena Crippa due interpreti efficaci. Ciò che nella pellicola di Bergman veniva affidato ai movimenti di macchina, qui emerge poco a poco dai moduli espressivi con cui le attrici tratteggiano i rispettivi personaggi. Sono diversissime, a tratti persino antitetiche, eppure sembrano necessarie l’una all’altra: Charlotte, pianista di successo disinteressatasi per anni della figlia, possiede l’elegante freddezza delle figure controverse ma vittoriose, delle donne ferite ma incapaci di ammetterlo; Eva, moglie di un pastore luterano (Marco Balbi) e madre di un figlio morto piccolo, grandeggia per il suo doloroso bisogno di amore, per la matura ansia di ricerca, di calore affettivo. Se la Falk predilige toni spezzati, straniati, mossi da meditate inversioni emotive, la Crippa disegna una psicologia più morbida, in perfetto equilibrio tra ragionevolezza e passione.

Lo scontro è inevitabile, vitale, spasmodico e dirompente, anche perché la macchia di una sofferenza ancora più atroce - la figlia/sorella disabile Helena che Eva tiene con sé - scava (drammaticamente) una distanza insanabile. Ci sarà dunque un nuovo abbandono, un nuovo distacco, un nuovo addio. Ma anche un «necessario», inesorabile, ritrovarsi.

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