Mafia e politica, i finiani stanno col governatore indagato

Uomo tutto d’un pezzo, di quelli che non deve chiedere mai, Gianfranco Fini ogni tanto, almeno ogni tanto, dovrebbe chiedere, informarsi. Scoprirebbe così che il suo più recente sermone, quello dal titolo: «Chi è indagato deve dimettersi da ogni incarico» non sta in piedi. Anzi, non solo non sta in piedi, ma è già diventato un boomerang. Che, spinto dall’inarrestabile forza dell’incoerenza, ultimamente compagna fissa del presidente della Camera, gli è subito ritornato addosso.
Ma andiamo subito al cuore del problema che, nel caso specifico, sta in Sicilia. La Sicilia, giusto per fare un esempio, di Dell’Utri e dei suoi guai, certamente, ma anche la Sicilia di Raffaele Lombardo e dei suoi guai. Perché, come ampiamente si sa, il governatore siciliano è indagato dalla Procura di Catania per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa avrebbe infatti avuto contatti con Vincenzo Aiello, già arrestato l’Ottobre del 2009 dai carabinieri, e indicato come uno dei boss vicini al capo mafia ergastolano Benedetto Santapaola.
Incorniciato dalla solita e doverosa quantità industriale di condizionali, il governatore Lombardo, questo è un dato di fatto, è stato tirato in ballo, dunque, da un’inchiesta giudiziaria. Quindi, se prendesse alla lettera il nuovo manuale del politico modello, elaborato da Fini, dovrebbe dimettersi. Invece non solo Raffaele Lombardo resta al suo posto, ma ci può restare tranquillamente proprio perché otto-finiani-otto, che peraltro, hanno stretto una ben poco santa alleanza con il Pd, lo sostengono e lo cospargono, quotidianamente, della giusta dose di solidarietà, che gli permette di andare avanti serenamente.
Curioso, non vi pare? Oddio, tanto per dirla tutta, gli otto-finiani-otto sono anche gli stessi che, ai primi di maggio, alla prova del fuoco della finanziaria regionale, sono stati determinanti con il loro «coerente» voto per ratificare il ribaltone che ha cacciato fuori dalla finestra il Pdl dal governo della Regione Sicilia, relegandolo all’opposizione. Parliamo, onde evitare fraintendimenti, dello stesso Pdl che aveva fatto entrare due anni prima Lombardo, lo stesso Raffaele Lombardo, dalla porta principale di Palazzo d’Orleans.
Ma anche questa manovra, ordita dai suo ascari, all’insegna della trasparenza e della correttezza deve essere, a suo tempo, sfuggita al presidente della Camera, Gianfranco Fini, troppo impegnato, evidentemente, a mettere a punto le sue regole d’oro di moralità che sembrano concentrarsi, come tanti, troppi spilli, solo e sempre su Silvio Berlusconi, come se quest’ultimo fosse una bambola per riti woodoo. Suvvia vi sembra che si possa ancora scherzare su quel siluramento della lealtà accaduto alla Regione Sicilia dove il Pdl, che aveva portato la coalizione Lombardo a guadagnare il 64 per cento di preferenze nella tornata elettorale, adesso è all’opposizione e al suo posto, al fianco del governatore, c’è il Pd? No, non si può scherzare, come non si può usare il doppiopesismo per taroccare la bilancia del rigore, facendo finta di non vedere quando un gruppetto di fedelissimi appoggia un indagato, non un colpevole, badate bene, ma come dice appunto il presidente Fini, soltanto un indagato. E quando il fedelissimo tra i più fedelissimi, Fabio Granata, accetta da Lombardo, quindi, facendo riferimento al solito sermone, da un presunto mafioso, l’incarico di vicepresidente di Cinesicilia. Quel simpatico ente-serbatoio di poltrone e voragine di sprechi che non ci pare abbia suscitato qualche parola di perplessità, magari tratta dal personalissimo dizionario finiano della moralizzazione. Tutto passa, tutto è ammissibile, quando riguarda «altri» che non siano il Cavaliere, per questo distratto Fini.

Che, strizzando sempre più frequentemente un occhio ai famelici volpacchiotti piddini, con l’altro si ostina a guardare la realtà delle cose e della politica con il cannocchiale rovesciato. Che fa sembrare distanti, sempre più distanti, gli amici e i patti di un tempo.

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