Dalla Maggiolina al Niguarda: quei volti dimenticati di Milano

Risalgo sul 5 nello stesso punto dove ero sceso per fare la mia passeggiata in Centrale, vale a dire in piazza Duca d’Aosta. Il Pirellone sorveglia la situazione dall’alto della sua insuperabile bellezza (salgano pure più in alto, ’sti pellegrini: la classe non si misura a centimetri, e nemmeno a litri).
Eppure, nonostante la Cattedrale e il suo Campanile, e nonostante la pretenziosa via Vittor Pisani (un tempo sede di binari ferroviari), c’è nell’insieme di piazza Duca D’Aosta qualcosa di irrimediabilmente brutto, che rinvia a quel brutto - anonimo e sempre uguale, come tutte le cose brutte - che accomuna questo spazio a tutti gli spazi delle grandi città destinati al viaggio.
Mentre la stazioncina di paese mantiene il ricordo di un lontano fascino, qui il presente e le memorie si mescolano crudelmente rendendo impossibile la realizzazione di un assetto urbanistico amabile. Un luogo non è mai il prodotto dei progetti di chi lo ha voluto o immaginato, ma solo della gente che lo abita.
Abitare lo spazio di una grande stazione ferroviaria è, in effetti, difficile: troppa diversità di scopi, troppa diversità di persone. Qui non c’è nemmeno mescolanza umana, ma solo confusione. Sarà sempre così. Né Roma né Parigi hanno saputo cancellare il senso di profonda disarmonia che regna negli spazi urbani destinati al viaggio.
Il mio tram entra in via Galvani, gira attorno al leggendario hotel Gallia - che il nuovo proprietario vuole ora riportare all’assetto originario, eliminando a suon di ruspe tutti i corpi aggiunti e le inevitabili superfetazioni. Poi, dopo un breve tratto, quello terminale, di via Filzi, riecco la Centrale, stavolta di fianco, in piazza 4 Novembre, che un’ideale diagonale divide in due parti, popolate a tuttoggi da due diverse tribù, da un lato (Filzi alberata) quella dei giaccacravattati, il «PPP», ossia power point people, dall’altro (Filzi senza alberi, direzione Tonale) la solita minutaglia da Stazione Centrale, le solite strade senza nobiltà nonostante diversi edifici belli, segno che ci avevano provato.
Ma dopo la svolta in viale Lunigiana e il superamento di via Melchiorre Gioia comincia una zona nuova, e l’aria della Stazione si dissipa. Restano però le cicatrici della storia, che impediscono a Milano di darsi un piano urbanistico felicemente crudele come quello parigino. La stessa via Gioia, che è tra le più lunghe e ampie di Milano, sta come sorretta da un’impalcatura sopra la Martesana, che l’asse viario non riesce a nascondere: ne fanno fede i dislivelli del controviale.
Qui sotto, succede di tutto: le acque del Seveso, per esempio, vanno ad alimentare il bel canale, scaricando le esondazioni (non rare, purtroppo) un po’ più a ovest, nel punto più basso della zona: alla müjassa, o Moiazza, identificabile su per giù con l’area di piazzale Lagosta.
Superata via Melchiorre Gioia, viale Lunigiana si fa alberato e sale fino al colle che sorge in mezzo alla grande piazza Carbonari, realizzato con la terra di riporto degli scavi per l’interramento della ferrovia diretta a Lecco e Bergamo. Anche qui l’assetto urbano, nonostante una certa pretesa di ordine, lascia bene in mostra la sovrapposizione dei progetti che, nel corso dei decenni, interessarono questa zona.
A differenza della Centrale, però, qui spira una certa aria di gradevolezza. Sarà perché la piazza è rotonda e si presenta con una sua pretesa: grande ma insieme domestica, intima, fatta di tanti pezzettini di piazza ciascuno dei quali sembrerebbe fare vita a sé: c’è il lato Stresa-Stefini, ordinato e modernuccio, c’è il lato Restelli, erboso e signorile (corre qui la mitica via Keplero, in realtà anonima ma meritevole delle sevizie onomastiche di Gadda, che vi ambientò il suo racconto più celebre), e c’è il lato-Maggiolina.
Mi concedo un passeggio solitario in zona Maggiolina, altro quartiere signorile che sorge, inspiegabile, tra la grande piazza e la grande via Arbe, poi viale Sarca. Il quartiere si sviluppa intorno a Villa Mirabello, una residenza rurale nata nel ’400 e attiva fino al XIX secolo.
Le case sono belle, domina il modello villa-con-giardino, ma alla fine prevale la malinconia: in fondo sembrano tutte abitazioni di vecchie zie, e a suonare a una porta c'è il rischio di vedersi introdotti in un salotto in penombra dall’odore di Amaretto di Saronno, davanti a un tè fumante con i biscotti. Gli occhi della mia fantasia incrociano quelli della zia-fantasma e vi leggono la frase fatidica: ci avevo messo l’arsenico. Ecco spiegato l’odore di mandorla!
Ma la Maggiolina è piccola e l’enclave finisce presto, e punta l'ultima occhiata sul vasto mondo in quel di via Vassallo, dove la Milano problematica, difficile e un po’ dispersa, «a fisarmonica», che ben conosciamo riprende il sopravvento.
Mentre il 5 riparte verso Niguarda mi chiedo perché mai il bel quartierino sia sorto proprio qui. La risposta è che, forse, tutto dipende dalla vicinanza di Cinisello, che ai tempi precedeva quel «Balsamo» poi giustamente disusato, che si giustificava (pare) per la presenza di acque benefiche. Due pedalate, un giretto in calesse e il balsamo l’era bell’e che servito.
Altri tempi. La corsa del 5 lungo viale Zara, poi Fulvio Testi, e in viale Ca’ Granda apre altre pagine nel libro di storia. Eccolo l’Ospedale Maggiore nella sua struttura bassa e vagamente egizia che meritò il nomignolo testoriano di «tutankamica». Ad esso, e al tesoro di dolore che racchiude (perché il dolore è un tesoro, e quando non ci sarà più - l’ha promesso Nichi Vendola - inizierà la vera carneficina, perché vorrà dire che l'uomo non conterà più niente), segue il vecchio paese, poi borgo operaio, di Niguarda, completamente privo di qualunque estetica.
Qui sembra di trovarsi in qualche enclave comunista dell’Italia Centrale (quelle che tagliano i cipressi per piantare gli abeti), però in compenso il quartiere vive con ogni evidenza di vita propria, concedendosi addirittura quell’aria rimpannucciata - con negozi di buon livello - che probabilmente vent’anni fa le mancava. La gente fa la spesa, se ne va per il quartiere, si siede ai bar. La fastidiosa idea di «zona di passaggio» Niguarda non la dà. Per quanto brutto, Niguarda è comunque un luogo, una casa, un ubi consistam.


Anche qui, come dappertutto, prima o poi ti imbatti in una villa antica: è la natura di Milano, che non ha mai stabilito particolari differenze tra «città» e «territorio» ed è circondata da abbazie e splendide ville come Villa Clerici, opera di Francesco Croce (lo stesso che disegnò la Grande Guglia del nostro Duomo), sede del Museo di Arte Sacra.
Bastano due passi, a Milano, per liberarsi dal caos e ritrovare una traccia di ciò che la nostra città dovette essere nei secolo passati. Una meraviglia.

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