LA MAGGIORANZA LABORIOSA

Quello che è sfilato ieri a Roma è il popolo italiano. Gente comune: artigiani e professionisti, contadini e studenti, tranvieri e imprenditori. Persone venute dal Nord, centinaia di migliaia di individui arrivati dal Sud. Se qualcuno pensava che a Roma sarebbero giunti solo pullman dal Veneto e dalla Lombardia, soltanto il cosiddetto popolo delle partite Iva, beh ha sbagliato i conti e soprattutto ha sbagliato linea e ora è alle prese con una bancarotta politica dagli esiti imprevedibili.
A piazza San Giovanni si è radunata quella che una volta avremmo definito la maggioranza silenziosa, ma che in realtà andrebbe chiamata maggioranza laboriosa. Una moltitudine di persone che fatica, non sciopera, non protesta e solitamente non va in piazza. È una maggioranza invisibile, che non trova spazio sui giornali, non si vede nei talk show e che i media regolarmente ignorano, come se non esistesse, perché giornali e tv preferiscono dar voce a una minoranza chiassosa, di professionisti della contestazione, invece che al Paese reale.
Ma nella storia dell’Italia c’è sempre un momento in cui la maggioranza laboriosa esce dalle sue botteghe, lascia i suoi uffici e le sue fabbriche, depone i suoi attrezzi e i suoi libri, per dire no. E il no di ieri è assordante. Come ho già spiegato, non ho dimestichezza con le manifestazioni, ma un amico giornalista di Roma, che ha visto passare generazioni in corteo, mi giura che quella di ieri è la più grande mai fatta nella Capitale da decenni. Neppure il sindacato, con i suoi soldi e i suoi attivisti, era riuscito a fare quello che ieri hanno fatto An, Lega e il «partito di plastica», come, con disprezzo, gli editorialisti dei giornaloni di palazzo chiamano Forza Italia.
Di fronte all’incredibile successo di popolo, qualche commentatore tenterà di minimizzare lo tsunami che si è abbattuto su Prodi e la sua banda. Gli opinionisti di complemento proveranno a dire che una manifestazione non cambia nulla, che uno e mezzo o due milioni di persone (vere e non clonate come la sinistra è abilissima a fare) non ribaltano un governo. Certo: la gente che è sfilata ieri non voleva fare la rivoluzione, non sognava la presa del Palazzo d’inverno. Ma almeno tre obiettivi li ha già raggiunti. E provo a riassumerli.
Primo. In mezza giornata sono stati spazzati via mesi, anzi anni, di chiacchiere sulla leadership del centrodestra. Se qualcuno aveva dei dubbi, ieri il popolo di Roma ha riacclamato Silvio Berlusconi suo leader naturale e chi si è rifugiato a Palermo per prendere le distanze dal Cavaliere non potrà non tenerne conto.
Secondo. Ieri si è assistito alla prima prova di partito unico del centrodestra. Per capirlo bastava guardare quei manifestanti avvolti nelle bandiere di Forza Italia e di An, senza distinzione di partito, ma con una sola fierezza, quella di difendere i principi di un Paese libero.
Terzo. Il corteo ha gettato le basi del programma di un centrodestra rinforzato e rinfrancato. È un progetto politico liberale, basato sulla libera impresa e sulla libertà degli individui, che respinge la dittatura fiscale. Ma è anche un manifesto in difesa dei valori cattolici e nazionali. I ragazzi di Comiso che reggevano una lunghissima bandiera italiana, in onore degli eroi morti in Irak, sono la rappresentazione di una maggioranza laboriosa che crede nei propri soldati, non li insulta in piazza e si oppone a chi sogna 10, 100, 1000 Nassirya.


Quella di ieri è l’Italia che non ride ai funerali dei propri martiri, ma, orgogliosa e composta, suona durante il corteo l’inno di Mameli.
È un’Italia che rialza la testa. Anzi, non l’ha mai piegata. Soprattutto di fronte a Prodi.

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