La malattia, impietosa lente sugli errori del passato

«Lo sconosciuto» di Nicola Gardini è la cronaca di un viaggio nella degenerazione dell’Alzheimer

Tutte le malattie sono uguali, almeno rispetto al dolore, ma alcune sono più uguali delle altre. Per esempio quelle che meglio sanno mettere il dito sulla piaga della fragilità umana, rivelando quanto sia sottile la pellicola che ci separa dalle bestie senza parola, e poi giù a precipizio dai vegetali, dalla materia. Nel caso dell’Alzheimer è addirittura il morbo in sé ad assumere carattere di apologo, visto il teatro - tra Beckett e Artaud - che immancabilmente dispiega: «sparizioni» surplace dell’io come nelle più spettacolari delle ipnosi, cedimenti lenti della memoria che spingono alle corde l’intelletto fino a confinarlo nell’istantaneità di una percezione senza respiro, inarrestabili regressi verso uno qualsiasi dei «miti» occidentali del primitivo, con il malato che di volta in volta assomiglia ad un bambino, ad un selvaggio o ad un folle.
Nel suo secondo romanzo, Lo sconosciuto (Sironi, 186 pagg., 14 euro), Nicola Gardini ci mostra la crudele ricchezza della degenerazione senile, riuscendo nell’impresa di non sacrificare la traboccante opulenza letteraria offerta dal genio dell’Alzheimer alla pietà filiale. È del padre malato, infatti, che scrive l’autore; né si tratta solo della cronaca di una catastrofe familiare. Gardini ricostruisce piuttosto l’intero romanzo dei genitori, «il Bruno e la Maria», dall'incontro fortuito in Germania alla lotta della madre per tenere il bambino («La vedi quella finestra? Se non mi sposi mi butto giù con tutto mio figlio») rendendo quasi palpabile il clima reticente che aleggia fra le mura domestiche, conseguenza degli umani, troppo umani passi falsi del capofamiglia.
È proprio all’interno di questa cornice di interdetto, esattamente al centro, che si incastona l’Alzheimer e la sua idiosincratica «elaborazione del tempo». Perdendo la memoria, trasformandosi in una mummia che parla (inevitabile che in un passo appaiano i manichini di Ruysch) Bruno riesce forse a liberarsi, tramite l’oblio, dall’oppressione di un passato che peraltro non è mai stato oggetto di pentimento, nonché da un presente in secca che il resto della famiglia apertamente gli rinfaccia. Ammesso che la malattia conduca ad una sorta di involuzione retrospettiva, come se il rocchetto del tempo si riavvolgesse, si intravede persino un tentativo di compiere di nuovo, stavolta nel modo giusto, azioni già eseguite nel modo sbagliato. Arduo, in caso contrario, spiegarsi come mai i rapporti tra Bruno e Maria, precedentemente improntati ad una blanda eppure costante conflittualità, tornino sereni. Almeno finché il destino non imponga un repentino approfondimento della «scomparsa».

Nella casa di cura, allora, un’infermiera tenderà l’indice: quello era un giudice, quello un dottore, quella poi una gran signora... Dove si incontra qualcosa di simile se non fra le pagine della Commedia di Dante? O in Fontenelle, o in un altro memento o convegno di fantasmi.

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