Marc Jacobs conclude le sfilate della fashion week americana

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Le due file di sedie tra cui si svolge la sfilata di Marc Jacobs cominciano dall'ingresso secondario su Lexington e finiscono su quello principale della caserma di Park Avenue a New York. In questo gigantesco stanzone, lo stilista americano in altre occasioni ha organizzato degli show incredibilmente spettacolari con musiche, luci e allestimenti degni di Hollywood. Stavolta le ragazze sfilano nel silenzio più totale, i passi scanditi dal ticchiettio dei loro stessi tacchi sul pavimento di legno rovinato da 137 anni di adunate militari. Oltre alla musica mancano anche le luci e non si vedono i fotografi che per altro in queste condizioni non potrebbero lavorare. Gli ospiti, invece, vedono benissimo i 44 modelli di una stupenda collezione intitolata Respect. Infatti Marc Jacobs dopo aver visto Hip Hop Evolution (un documentario trasmesso da Netflix sul genere musicale diventato movimento estetico e culturale) ha deciso di rendere un rispettoso omaggio alla generazione che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta ha inventato il cosiddetto street style. Non a caso le modelle ci attendono sul marciapiede davanti allo storico edificio illuminate dalla luce di una giornata ventosa e gelida come non mai. A sfilare siamo noi su una versione rimixata del celebre brano di Dionne Warwick Walk on by sparata a palla per la strada come un tempo facevano le ghetto radio dei ragazzi che aderivano al movimento hip-hop. La rilettura estetica di quell'epoca irripetibile è semplicemente perfetta: maxi giacche a forma di scatola lunghe come il sottostante miniabito che in genere è leggero e ricamato da minuscole paillette. In alternativa di sono dei bei pantaloni dal taglio sartoriale anche nel caso dei modelli più sportivi in denim o velluto a coste color vino.

In testa hanno tutte un cappello a bombetta spesso nello stesso materiale dell'abito per un piacevole effetto composè. Catene piene di ciondoli, orecchini a forma di chiave, borse e borsine d'ogni tipo: un gran lavoro. Insomma aveva ragione Oscar Wilde nel dire che la semplicità è l'ultimo rifugio del complicato.

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