Mario Sironi, un artista «integrale» e il muro ideologico del dopoguerra

Nel suo carteggio i tragici eventi familiari e i contrasti con il mondo della cultura

Vita difficile, e fortuna ingrata, per tanti uomini e artisti che presero parte con passione ai tumulti e ai miti rivoluzionari del XX secolo. In Italia primo ma non unico tra questi fu Mario Sironi (1885-1961) che scontò l’«illusione fascista» col prezzo delle incomprensioni durante la dittatura e dopo, quando l’epurazione culturale dell’Italia repubblicana gli dette un ingiustificabile ostracismo negando a lungo l’opera di uno dei più profondi e originali artisti del nostro ’900.
Combattente nella prima guerra mondiale, futurista e primo attore della tendenza arcaico-modernista di «Novecento», negli anni ’30 Sironi idealizzò a tal punto la civiltà corporativa che divenne bersaglio di rozze e interessate polemiche sul fondo «bolscevico» del suo inconfondibile stile. Si può capire. Anche al tempo dei riconosciuti successi, egli mantenne il fondo espressivo di un temperamento pensoso, triste e solitario che concedeva ben poco alla retorica superficiale del regime. E ancor più solo dovette perciò sentirsi quando, crollati gli idoli di gioventù, gli si parò davanti il muro ideologico delle condanne antifasciste e delle campagne diffamatorie.
Tutto ciò emerge da un intenso capitolo del suo carteggio, curato da Elena Pontiggia (Mario Sironi, Lettere, Abscondita, pagg. 120, euro 13) che ci mostra la vita di un’anima tutta compresa nel dramma interiore, scandito dai tragici eventi umani (la perdita del padre alla età di 13 anni, il suicidio della figlia diciottenne Rossana, nel ’48), dalle speranze del giovane futurista (con lettere a Umberto Boccioni e Gino Severini) alle testimonianze di fede in un’arte «politica» (gli scambi epistolari con Margherita Sarfatti e l’eloquente lettera del ’33 a Mussolini sul pregio «antindividualista» della pittura murale) ai difficili e sofferti rapporti familiari (con la prima moglie, la devota figlia Aglae e la giovane e inquieta Rossana), fino alle relazioni contrastate col mondo della cultura durante e dopo il fascismo (Ugo Ojetti, Marcello Piacentini, Curzio Malaparte).
L’intellettuale e l’artista Sironi, come altri «oscillante nel vuoto» delle grandi convulsioni ideologiche e politiche del XX secolo, pagò più di tanti altri il prezzo del suo «integralismo fascista». Aderente per fedeltà alla Repubblica Sociale, rischiò la giustizia sommaria dopo il 25 aprile ’45 e si salvò grazie allo scrittore Gianni Rodari, partigiano e comunista, che ne stimava la purezza morale. Nel dopoguerra, continuò a dipingere in cupa e coraggiosa solitudine.

Ma intorno a lui e a sua insaputa fiorivano mostre «piene di ignobili falsi», scriverà indignato e disperato nel ’48 all’amico scultore Domenico Rambelli, anch’egli «epurato». Da quel tempo, sarebbero dovuti passare più di quarant’anni (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 1994) perché si cominciasse a riconoscere e celebrare l’opera di Sironi.

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