«Matite e computer siamo noi il futuro animato»

Giuseppe Marino

«Tempi duri per i creativi dei cartoon. Ma la fame di fantasia non è finita, anzi ce n’è ancora di più. E se il computer apre nuove possibilità, la matita conta sempre tanto». Per Iginio Straffi, padre della Rainbow, la maggiore casa di produzione italiana di cartoni animati, il futuro del genere è irto di difficoltà, ma anche di possibilità. Difficile, del resto, non essere ottimisti, quando si è realizzato tanto a 41 anni. Da semplice disegnatore di fumetti, tenendo duro per 15 anni si è trasformato nel padre di un’azienda che impiega 120 persone, la prima (e unica) italiana a vendere un cartone sul mercato Usa: il successo delle fatine Winx ora è planetario, le guardano i bambini di 120 Paesi, generando un giro d’affari di un miliardo di dollari. E ora, con Monster Allergy, Straffi è riuscito a bissare. Ha venduto la serie al gigante del settore, Warner Bros. Il debutto della serie negli Usa è previsto per sabato.
Straffi, cos'è cambiato nel lavoro del cartoonist rispetto ai tempi d’oro di Hanna&Barbera o dei Flintstones?
«Allora paradossalmente era più facile per i creativi. Oggi le major, se vendono un film di grande successo, un blockbuster, impongono ai network di comprare in blocco anche una serie di cartoni animati. Così gli spazi liberi si riducono. E la proliferazione dei canali satellitari dedicati paradossalmente non ha aumentato gli spazi. Perché l'audience si è frammentata e si fa fatica a trovare sponsor pubblicitari. Mentre l’offerta di produzioni si è quintuplicata».
Ma ci sono ancora veri maestri? C’è ancora la possibilità di creare personaggi che diventino classici?
«I maestri ci sono ancora, per esempio Miyazaki (Oscar per «La città incantata», ndr.) o Matt Groening: i suoi «Simpson» sono sulla breccia da oltre 10 anni, quindi vanno considerati un classico. Ma è difficile che un creativo riesca a costruire dal nulla una grossa azienda come fece ad esempio Walt Disney. La fame di nuovi personaggi c'è, ma al timone ora ci sono i manager».
Lei ce l’ha fatta
«Fortunatamente. Ma è un’eccezione negli ultimi 30 anni. Oltretutto oggi per coprire i costi di produzione di un cartone, che possono ammontare a 5-6 milioni di euro per una serie da 26 episodi, è fondamentale puntare sul merchandising, e per gestire quel settore servono investimenti e un approccio imprenditoriale. Ad esempio bisogna produrre delle style guide, linee guida corredate da disegni, che costano molto ma che sono indispensabili per uniformare la produzione di gadget in tutto il mondo. Quindi passare attraverso una serie di passaggi, uno più difficile dell’altro: dalla produzione del cartone, alla vendita, alla conquista del cuore dei bambini. E l’ultimo, il più difficile: far sì che scatti il meccanismo di identificazione, per cui i bimbi vogliano immedesimarsi nei personaggi».
Dal punto di vista tecnico, del processo creativo, cosa è cambiato?
«Innanzitutto il linguaggio dei cartoni è molto diverso rispetto ai tempi d’oro. Allora andavano episodi auto-conclusivi che duravano 5-6 minuti. Oggi ci sono intrecci e dialoghi molto più complessi che si articolano nella durata tipica di 26 minuti. E spesso con la continuità tra un episodio e l’altro, anche se le tv faticano a impegnarsi nel trasmettere le serie in ordine e integralmente. I cartoni sono la prima cosa che viene sacrificata, spostata di orario, come spesso abbiamo visto fare sulla Rai, ad esempio».
A proposito, com’è la situazione in Italia? Lei, 15 anni fa, per poter decollare è dovuto andare in Francia.
«Sì, per una questione di mentalità. Da noi ci si confronta con ciò che fa il concorrente più vicino. Invece bisogna guardare al mercato internazionale, investire tanto per fare poche produzioni di qualità, ma che abbiano davvero la possibilità di emergere».
Dunque servono le tecnologie.

Davvero il computer soffoca la creatività?
«Assolutamente no, Innanzitutto la base resta sempre la creatività del singolo, che continua a fare i primi schizzi a mano come una volta. Con i computer aumentano le possibilità espressive. Noi ci puntiamo molto».

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