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La maxi moschea è a San Vittore Dietro le sbarre la legge dell’islam

Il carcere ospita ormai il più grande centro musulmano della città Gli imam sono detenuti comuni e la comunità è diventata un potere

La maxi moschea è a San Vittore 
Dietro le sbarre la legge dell’islam

Sesto raggio di San Vittore, terzo piano. É l’ora d’aria, le celle sono vuote. Ma quello che delle celle si vede attraverso le sbarre è sufficiente per toccare con mano una realtà che definire incivile è poco. Sei letti a castello in uno spazio che potrebbe ospitare a stento una persona, abiti e cose buttate dove si può, e due sgabelli dove, a turno, si mangia: come a turno ci si alza e a turno si muovono le gambe nei pochi passi tra le sbarre della porta e le sbarre della finestra. Prima dell’ultima cella, c’è uno spazio di grandezza più o meno uguale, illuminato da un lucernario. Sul lucernario, dipinta con la vernice verde, una scritta in caratteri arabi. Omar, 21 anni, tunisino, spiega: «C’è scritto semplicemente il nome di Dio».
Eh sì, perché il lucernario del sesto raggio è una piccola moschea. Come piccole moschee sono altri spazi, ricavati qua e là per il vecchio carcere. Moschee diventano le piccole e sovraffollate celle, rigidamente divise per etnia, nelle ore della preghiera. Una moschea a cielo aperto diventano i cortili del «passeggio», quelli dell’ora d’aria, soprattutto il venerdì, nel giorno sacro dell’Islam. A San Vittore, ormai, si potrebbe parlare di una moschea diffusa. La più grande di Milano, perché questo è il più grande quartiere arabo della città. E la comunità islamica vi ha conquistato spazio e potere: almeno nella accezione che il concetto di potere ha nella vita interna del carcere, fatta di numeri, di rapporti di forza, di rispetto. Non molto tempo fa, alle docce, un detenuto albanese spalleggiato da un gruppo dei suoi, ha staccato di netto un orecchio con un morso a un marocchino. Manuela Federico, la giovane donna che comanda il carcere, nel giro di poche ore ha dovuto trasferire tutti i protagonisti, per evitare che la vendetta dei marocchini insanguinasse i raggi.
Oggi, in questo carnaio da 1.586 uomini, dove i nuovi arrivati devono dormire per terra, il verbo dell’Islam è un fattore di aggregazione e a suo modo di ordine. Non ci sono terroristi, a San Vittore, perché il ministero li manda nei carceri di massima sicurezza: e invece questo è un porto di mare dove la gente entra ed esce in continuazione. Ma dove, ciò nonostante, la comunità islamica si è data riti, capi, organizzazione. E avanza rivendicazioni che nel lucernario al quinto raggio, dopo avere guidato la preghiera rivolti verso la Mecca, Nourdine Maan - che ha appena 25 anni, ma ha già l’autorevolezza del leader - elenca con scioltezza: «Vogliamo pregare. Vogliamo il cibo previsto dalla nostra religione. Vogliamo poter lavorare».
Trent’anni fa, nelle carceri italiane, l'incrocio tra malavita comune e terroristi fu un formidabile strumento di proselitismo per la lotta armata. Proprio per evitare che la storia si ripeta, e che la massa di disperati arabi che affollano le nostre carceri diventi brodo di cultura per i predicatori della jihad, è stato deciso di tenere separati questi due universi. Ma ciò che non è evitabile è che il carcere diventi uno strumento di aggregazione e di presa di coscienza per centinaia e centinaia di islamici. A San Vittore entrano per avere violato la legge italiana ma anche il Corano: perché hanno rubato e spacciato droga. «Ma noi vogliamo - dice Abdelkade Mouaniss, 40 anni, marocchino - che i fratelli arabi qui dentro capiscano i loro errori. Per questo ci servono i libri. Ci serve il Corano, di cui ci sono poche copie. E ci servono altri libri».
Gli imam, i predicatori che guidano la preghiera, sono scelti tra i detenuti. Sono loro a mediare tra la rabbia della base e la inevitabile diplomazia dei rapporti con l’istituzione carcere. Per dire: a pregare, nel lucernario del sesto raggio, c’è un tunisino di nome Amer, quarant’anni, a cui piace andar giù duro: «Sono stato in altre carceri italiane e questo è il peggiore di tutti. Neanche a Guantanamo si sta così. Non ti curano, non hanno rispetto neanche per i vecchi, se osi alzare la testa ti picchiano». E, se gli chiedi come la pensa sul tema dello scontro tra Islam e Occidente, ti dice piatto: «Noi siamo una religione di pace. Ma l’Italia non deve più combattere accanto agli americani in Iraq e in Afghanistan perché lì ci sono popoli che lottano per la loro libertà. Lasciate gli americani ad arrangiarsi da soli».
I «portavoce» invece stanno attenti ad evitare che anche mezza parola faccia sospettare di una contaminazione tra questo universo e i propagandisti della jihad. «Quello che conta - dice Nourdine Maan - sono le condizioni materiali qui dentro. Chiediamo un luogo per pregare tutti insieme il venerdì, dalle 10 alle 13. Chiediamo di poter mangiare carne macellata secondo il Corano: qui dentro la si può comprare, ma noi non abbiamo i soldi neanche per comprare il sapone da barba. E chiediamo di poter lavorare: ogni dodici lavoranti, undici sono cristiani e uno solo è arabo».
Dai vertici della prigione fanno sapere che non è così, che l’accoglimento delle «domandine» di lavoro segue un ordine rigoroso.

Ma quel che fa effetto è che ormai la trattativa sia aperta, e che la «moschea San Vittore» sia un soggetto forte: religioso, ma anche in un certo senso sindacale e politico, con cui si dovrà fare i conti. Solo più in là si scoprirà se questo è un bene, un male, o semplicemente qualcosa di inevitabile.

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