MEDIOEVO PROSSIMO VENTURO

C ome accade a qualsiasi persona che si occupi più o meno professionalmente di idee, mi capita spesso di ascoltare lamentazioni che riguardano il declino della cultura italiana, europea o magari mondiale. Di solito tali lamentazioni sono accompagnate dalla lode del tempo andato, quando il liceo classico era duro ed anche l’ultimo dei laureati era in grado di tradurre in un batter d’occhio e senza vocabolario le iscrizioni latine scolpite sui frontoni delle chiese. All’inizio reagivo con insofferenza, e assicuravo che biasimare la barbarie dei tempi è uno sport antichissimo che appassiona esclusivamente gente che ha fretta di gettare la spugna «perché tanto oggi impegnarsi non serve a niente». Da qualche anno, però, preferisco ricorrere all’argomento «dell’Età di Pericle», che è un po’ meno tranciante. Vi sarebbero, nella Storia, fasi di splendore cui seguono fasi di relax. L’Atene di Pericle, la Jena dei Romantici, la Vienna di Freud non possono durare in eterno; prima o poi compare all’orizzonte il ritorno alla normalità, una normalità che per forza di cose appare come un tragico medioevo prossimo venturo. In tali frangenti - e noi viviamo in uno di essi, anche se abbiamo difficoltà ad ammetterlo - danno il meglio di sé i romanzi che appartengono al genere apocalittico. La letteratura apocalittica serve per l’appunto ad attirare l’attenzione sulle gemme preziose che stanno svanendo, prospettando un panorama infernale in cui esse sono ormai del tutto scomparse. Per sincerarsene, basta aprire Il mondo è rappresentazione di Ferruccio Parazzoli (Mondadori, 379 pagg., 20 euro). Si tratta di un romanzo di grande ambizione che osa mettere alla fine del testo, come uno spauracchio per filistei, nientemeno che una bibliografia; ma la trama è affascinante e l’inizio, con spericolato snobismo, assomiglia a quello del Nome della rosa. Un vecchio monaco, Brendano, racconta le vicende delle quali è stato testimone e in particolare i dettagli di una missione affidatagli dall’abate di Morimondo. Siamo nel futuro, in un paese balcanizzato e ricoperto di macerie chiamato Euroland dal quale gli Stati nazionali sono scomparsi. In compenso è percorso da torme multietniche di partigiani delle più disparate fazioni, che vanno a caccia di tutto: di cecchini da abbattere, di gasolio per i camion, di cibo. Ed anche se in Euroland le vecchie parole sono morte, una continua a mantenere il suo antico significato: la parola «eresia».
L’eretico numero uno, quello che Brendano ha il compito di uccidere, è Wulferio, un attore che percorre le autostrade ancora praticabili sul carrozzone Leviathan: ultimo riflesso di uno Stato assoluto che non riesce più a gestire le domande essenziali. Leviatano, il feroce coccodrillo biblico al quale gli uomini non hanno mai smesso di consegnare la loro libertà in cambio di una ridicola «sicurezza». Gli spettacoli di Wulferio, che rievocano le sacre rappresentazioni medievali (la cacciata dall’Eden, l’uccisione di Abele…) attirano folle troppo vaste per non preoccupare un potere che crede nuovamente nelle reliquie e nel Diavolo, in una specie di rediviva superstizione universale.
Si è detto che la letteratura apocalittica, oggi, può dare il meglio di sé; ma bisogna aggiungere che ogni terremoto culturale è un sublime bricolage che rivela i gusti e le ossessioni più radicate di uno scrittore. Per quale ragione, allora, Parazzoli avrebbe costruito un romanzo intellettualmente così complesso? Probabilmente, per difendere la sfera della narrazione dai suoi detrattori. Se un critico letterario come Filippo La Porta, di fronte all’imperversare spesso osceno dell’intreccio, per esempio nei telegiornali, reagisce chiedendo che vi sia «meno letteratura», Parazzoli stacca la rappresentazione dall’ambito della copia, della replica e l’avvicina al teatro, cioè all’azione. La rappresentazione di cui parla Parazzoli non è quella di Schopenhauer, non è la scimmia del reale; è play, ha una base teatrale. Che il mondo apocalittico sia rappresentazione vuol dire che dopo tanta televisione, ma anche tanti racconti, si torna al teatro, alla concretezza.


Lasciamo al lettore il compito di scoprire in che modo questa concretezza permetta forse una nuova teologia; ma possiamo anticipare che nel romanzo di Parazzoli si ammette che all’inizio - e in un senso molto diverso da quello riscontrabile in Valéry - era la favola.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica