"La mia vita da mercante d'arte fra diplomazia e grandi opere"

Il gallerista ha trascorso 40 anni fra Murer, Muic e Botero. "L'esposizione è solo la parte finale, conta tenere i rapporti"

"La mia vita da mercante d'arte fra diplomazia e grandi opere"
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Settantatré anni, 40 dei quali spesi fra mostre, musei, fiere e aste, quattro gallerie tra Venezia e Cortina, una collezione personale di cui preferisce tacere («Diciamo che ho qualche pezzo importante...»), un figlio, Riccardo, affermato designer di gioielli, carattere toscano e spirito latino («prediligo gli artisti che esprimono felicità, colore e joie de vivre»), Stefano Contini pistoiese di nascita e veneziano di rinascita è fra i grandi galleristi e mercanti d'arte d'Italia. Davanti a sé ha decine di progetti, dietro una storia personale che diventerà un'autobiografia («Ma devo ancora iniziare a scriverla...»).

Come si arriva a Venezia, ombelico dell'arte, partendo dalla pianura dell'Ombrone?

«Arrivai nel 1974, a 23 anni, come responsabile per il Veneto della Rizzoli-Finarte. Sempre avuto passione per l'arte. A sei anni ritagliavo le foto dei quadri famosi dai calendari... Nel '79 uscii dalla Rizzoli e aprii la prima galleria, a Mestre e poi Asiago. In quegli anni incontrai artisti che mi diedero fiducia, come Augusto Murer ha presente il Monumento alla Partigiana, a Venezia? - e poi il vecchio Giuseppe Cesetti, e soprattutto Zoran Muic, che è stato il mio passaporto internazionale: viveva a Parigi, amico di Mitterand, mi fece incontrare i due critici d'arte con i quali ho lavorato di più, Jean Clair e Kosme de Barañano...».

Oggi la galleria principale è a Venezia, Calle Larga XXII Marzo.

«Anni fa comprai un palazzetto di cinque piani, e invece di farci un albergo ci ho messo la galleria. Su un piano ho l'ufficio, negli altri le mostre che apro a rotazione: una adesso ospita i lavori di Julio Larraz, che ha quasi 80 anni e che quando scappò dalla Cuba di Castro divenne il Forattini americano, disegnando vignette per New York Times e Washington Post...».

Lei ha avuto un grande maestro: Jan Krugier.

«Era il procuratore di Marina Picasso, la nipote di Pablo. Me lo presentò Muic. Mi ha insegnato tanto. Nelle fiere in giro per il mondo, dopo aver allestito il suo stand, veniva nel mio. Si sedeva, guardava in giro, e poi cominciava a ribaltarmi tutto... Carattere difficile, autoritario. Quando gli feci prendere un appartamentino sul Canal Grande sotto il mio, a filo d'acqua, era felicissimo. Ma io più di lui. Per una volta sei tu che stai sotto di me, gli dissi».

Cosa significa essere un mercante d'arte?

«Molti credono che basti prendere una stanza in affitto e attaccarci dei quadri. Ma l'esposizione è la parte finale, quello che conta è tenere i rapporti con le istituzioni, i musei, i giornali, i collezionisti. E gli artisti. Bisogna farli crescere, promuoverli, farli uscire dai confini nazionali e quando serve finanziarli. Oltre a difendere sempre il loro lavoro. Si chiama credibilità, senza la quale non vai da nessuna parte. Botero lo conquistai così».

Quanto un gallerista condiziona il successo di un artista?

«A volte molto. Spesso sono persone geniali ma che non sanno gestire il loro talento né le loro opere».

Gli altri artisti ai quali è più legata la sua carriera?

«Pablo Atchugarry, Manolo Valdés, Igor Mitoraj del quale rappresento l'eredità artistica, Robert Indiana, Park Eun Sun. E tra gli italiani Mario Arlati, Andrea Valleri, Enzo Fiore e Paolo Vegas. Degli ultimi due inauguro oggi una mostra nella galleria di Cortina».

Perché Venezia e Cortina come sede delle sue gallerie? L'arte è per pochi ricchi?

«Beh, certo non è per tanti poveri. Del resto la grande arte è stata sempre pagata da ricchi mecenati. E comunque la galleria resta uno spazio commerciale. È antipatico dirlo, ma non posso vendere quadri a chi non ha soldi».

Dicono che Lei sia un venditore micidiale.

«Pensa sia un difetto?».

Qualità del venditore?

«Diplomazia, equilibrio, capacità di adattarsi al compromesso. Che non è un male se porta un beneficio a entrambe le parti, anzi...».

L'artista che vorrebbe rappresentare?

«Negli anni, inconsapevolmente, mi sono spostato molto sulla scultura. Due artisti che mi piacciono sono lo spagnolo Jaume Plensa e Tony Cragg. E beh, certo, Anselm Kiefer, il Maestro».

Progetti per il 2024?

«Molti. Di Igor Mitoraj, a dieci anni dalla morte, porterò 30 sculture nel teatro greco di Siracusa e sei nel porto di Marbella. Di Pablo Atchugarry aprirò una mostra a Venezia, a maggio, per la Biennale, e una a Valencia: metteremo le sue sculture nelle piscine della Città delle Arti e della Scienza di Calatrava.

Mentre il 5 aprile installeremo 13 sculture di Manolo Valdés nella piazzetta San Marco a Venezia. Poi a Pietrasanta, dove vive da 30 anni, inauguriamo una Fondazione dedicata allo scultore coreano Park Eun Sun. Ne abbiamo di lavoro da fare».

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