La Milano di Gadda rinasce in periferia

Al quartiere Ponte Lambro, fra grigi casermoni ed eleganti villette, corrono parallele la via del Bene e quella del Male. Una pace in cerca di un nuovo ecosistema e fa pensare alle pagine del "gran lombardo"

Milano - «Milano, per la classe dirigente meneghina, per la sua borghesia sempre più asfittica e bizantina, continua a finire alla cerchia dei Navigli». La frase, scritta da Gianni Biondillo nel libro Tangenziali, ha il difetto di essere stata pubblicata nel 2010, quando l’identificazione tra borghesia milanese e classe dirigente appare superata. Non c’è bisogno di tirare in ballo la borghesia, se mai parliamo di quelli che l’hanno sostituita. Comunque sia, in quella frase c’è del vero. La morte di uno straniero (che però era anche italiano) in via Padova ci racconta una storia pilatesca che ci piacerebbe non sentire più.

Anch’io, come Biondillo, che con un amico (Michele Monina) se n’è andato a piedi per le tangenziali milanesi, sono abituato ad andarci, nei posti, prima di parlare. E il suo libro mi mette il desiderio di fare anch’io qualche sopralluogo, come al tempo in cui scrissi il mio libro su Milano.

Sono le dieci del mattino di un giorno infrasettimanale e voglio tornare, dopo tanti anni, a Ponte Lambro. Negli anni Ottanta-Novanta non era un bel posto, adesso mi dicono che è migliorato. Siedo sul 27, che percorre via Mecenate per girare, quasi alla fine, in viale Ungheria, dove scendo e aspetto la 45, una delle linee di bus milanesi più interessanti, che penetra nei quartieri popolari (da Ungheria al Forlanini) tra un mercatino e l’altro, e dove l’integrazione si fa giorno per giorno, tra povera gente italiana e povera gente straniera, senza bisogno di attendere i piani calati dall’alto.
A quest’ora la 45 è carica di persone anziane. Passata la tangenziale, scendono quasi tutti alla mia fermata. Li riconosco: si tratta di una falange del grande esercito dei Cardiopatici Milanesi, che appena posato piede a terra si incolonnano, buoni buoni, verso l’ingresso del Monzino, la famosa clinica cardiologica che dal 1992 ha messo radici qui, alle porte di Ponte Lambro. Il sole biancastro di febbraio e le saracinesche perlopiù abbassate mi fanno pensare alla domenica mattina. Entro in un bar, dove ammiro, appese alle pareti, alcune immagini degli anni Cinquanta che raffigurano la lunga via Bonfadini (oggi ribattezzata in questo tratto via Vittorini) e il borgo di Ponte Lambro com’era un tempo.

Ponte Lambro si sviluppa su due lunghe vie parallele che più diverse non si potrebbero immaginare. Sono come il Bene e il Male. Il narratore che è in me mi sospinge prima sulla via del Male, via Ucelli di Nemi, asse centrale di un disgraziato progetto urbanistico che negli anni Settanta raddoppiò il borgo trasformandolo in un quartiere-dormitorio tagliato fuori dalla città (anche perché nel frattempo la via Bonfadini, un tempo arteria principale, che conduceva fin dietro il Duomo - guardate la piantina e lo capirete da soli - era stata pressoché dismessa, e la nuova tangenziale est aveva reciso ogni nesso residuo), che in breve acquistò cattiva fama per la presenza di alcune bande di delinquenti.

Oggi via Ucelli di Nemi è al centro di un lodevole piano di risanamento, e i lunghissimi (150-200 metri) casermoni Aler che la fiancheggiano sono stati risanati e sarebbero quasi gradevoli, se una sezione centrale di essi, di proprietà del Comune, non avesse mantenuto l’aspetto sinistro di un tempo perché, spiega la panettiera, il Comune non ha aderito al piano. Ma il mio sguardo, alla fine dei casermoni, si spinge a sinistra, dove un gruppo di case povere ma vivaci cattura la mia attenzione. Fiancheggio una scuola - una tra le prime di Milano come percentuale di stranieri - e giro in via Rilke, dove due belle case gemelle, una ristrutturata e una no, attirano la mia attenzione. Sono edifici vecchi, che m’introducono in un’altra storia, la storia di un borgo di lavandai (nel Lambro, sembra impossibile) laboriosi e pacifici.

Entro così nella via del Bene che, a dispetto delle numerosissime parabole piantate su tetti e balconcini, presenta le sue povere ma certe virtù fatte di casette, cancelli, giardini, cortili. Il nome di questa, che è l’arteria del borgo vecchio, ci collega a un passato religioso: via degli Umiliati. Cerco le tracce dell’antico convento, e mi sembra di trovarle al civico 10. Qui c’è molta campagna, molto paesino. La schiera di alberi che fiancheggiano il Lambro ci fa pensare, vista da qui, a un fiume pulito, quando dalle inquietudini carsiche dell’alta pianura si stendeva nella bassa, dove la terra rende di più.
Verde Lombardia! Dove la cucchiaia si dimanda cazzuola, e il mattone quadrello! Le grandi parole di Carlo Emilio Gadda risorgono alla vista di questa pace costruita dalle umili persone e distrutta dai piani regolatori. Una pace in cerca di un suo nuovo ecosistema, fatto soprattutto di stranieri che qui, forse, possono permettersi la loro casa, il loro pezzetto di milanesità.

Oggi si cerca di rimediare alle malefatte (soprattutto amministrative) del passato con qualche ristrutturazione e/o ripavimentazione e disponendo dove si può di qualche panchina senza però i necessari alberi. Ma la quantità di auto parcheggiate dappertutto ci ricorda che il quartiere è ancora isolato, e le donne, molte velate, che si affrettano verso via Vittorini - dove sono concentrati quasi tutti gli esercizi pubblici - mi parlano di una difficoltà permanente del piccolo commercio, la cui utilità sociale è stata dimenticata a favore di una politica che privilegia in modo unilaterale queste aride isole, i centri commerciali, perse in mezzo al mare dei flussi post-moderni.


Qui, quello che c’è di buono l’hanno fatto le persone. I piani e i progetti hanno soprattutto devastato. Perciò, pur facendo i migliori auguri a chi governa il territorio, io direi: andiamoci piano con i piani, e ascoltiamo di più la voce del bisogno.

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