«Milano troppo municipale? Le rivoluzioni nascono qui»

Dopo un voto nazionale «politico», di solito, la parte vittoriosa si mette a operare secondo il suo programma, mentre quella sconfitta si predispone a meditazioni di lunga portata. La discussione per un momento quasi si placa. In Italia, le cose non stanno andando così: subito dopo il voto lo scontro delle idee è ripreso con vivacità. Ci si confronta su tanti temi: che cos’è oggi la cultura di una coalizione di centrodestra. Come pesano le diverse città e aree dell’Italia. Questa vivacità nasce da un fatto evidente: il 9 e 10 aprile non c’è stato un vero vincitore. Gli equilibri parlamentari e governativi sono numericamente e ancor più politicamente traballanti. Non è difficile immaginare una svolta in tempi brevi. La discussione politica non cessa, si alimenta di riflessioni anche originali.
Filosofo (Estetica alla Statale di Milano), scrittore, commentatore, assessore alla Cultura nella giunta Albertini e candidato nella lista Letizia Moratti per il comune di Milano, Stefano Zecchi non si sottrae alla nuova ondata di confronti tra intellettuali.
«Tra gli argomenti che hanno in questi giorni attirato la mia attenzione vi è uno scritto di Ernesto Galli Della Loggia di qualche giorno fa sul Corriere della Sera sul ruolo di Milano, con considerazioni interessanti da cui mi pare opportuno partire anche per riflettere su che cosa può essere oggi una cultura politica del centrodestra. Sintetizzando molto, l’editorialista del Corriere sostiene che Milano, città ricca di fermenti, non pesa abbastanza in campo nazionale, perché le tante idee che qui nascono hanno una dimensione più municipalistica che statuale: e anche quando influenzano il quadro generale, lo fanno in modo episodico senza contribuire a formare una classe dirigente. Ci si riferisce in questo senso anche all’esperienza recente di un movimento con un’anima così milanese come Forza Italia. Vi è qualche elemento di verità in quest’analisi. Anche se, però, secondo me vi è un rovesciamento da applicare all’interpretazione del rapporto Milano-nazione. È da tempo, da un migliaio di anni (lasciando perdere Sant’Ambrogio e le vicende degli imperi romani d’Oriente e Occidente) che il capoluogo lombardo ha una funzione fondamentale nella modernizzazione dell’Italia, ben prima che questa si riconoscesse in un nazione. Così nella stagione dei liberi comuni. Così nel Quattrocento. E, poi, finalmente italiana, a fine Ottocento e nel secondo dopoguerra. In tutte queste fasi Milano, ha un ruolo decisivo di guida, spesso di anticipazione: frequentemente culturale (sicuramente nel Novecento) sempre economico. Quando Milano va in crisi, non è principalmente per eccessi di chiusura localistica, ma perché lo strutturarsi del “potere” italiano non consente alla città di esprimere il suo ruolo di modernizzazione».
Una Milano senza difetti?
«Sicuramente vi sono anche difetti cittadini: una costante storica, dalle rivolte patarine dei primi secoli dopo il Mille, è quella di ospitare un’anima ribelle, radicale, manichea che si esprime con violente fiammate moralistiche incapaci di costruire, in qualche modo opposte allo spirito di pragmatismo liberale prevalente in una città di mercanti. Nei tempi più recenti, dal fascismo (partito - non si dimentichi - dalla milanese piazza di San Sepolcro) al giustizialismo di Mani Pulite, tante tendenze “politiche” sono state segnate da questo spirito ribellistico senza mediazioni. Però questo moralismo senza costrutto che ogni tanto devasta la città, alla fine è una risposta alle carenze dei processi più generali italiani. L’incapacità del nostro popolo di darsi uno Stato nel Rinascimento. Il Risorgimento gestito dall’alto che non fa crescere una classe dirigente diffusa e legata al popolo. Il consociativismo senza alternanza invece di una democrazia aperta nel secondo dopoguerra. Oggi, per esempio, le difficoltà di fare politica di Milano nascono non dal suo municipalismo ma dal confrontarsi con un estenuato establishment che si oppone a un vero e libero confronto di idee diverse».
Più che di Milano, il problema è dunque nazionale.
«Più che Milano, il problema, mi pare, è quello di un potere italiano non fondato su una coscienza nazionale. Non mi pare che si possa parlare di una Milano poco politica. Restringendo la nostra riflessione al periodo più recente, al secondo dopoguerra: siamo di fonte a un’area del Paese che alimenta molte delle maggiori culture “politiche” nazionali. È all’Università cattolica che si formano il dossettismo e la cultura programmatoria della sinistra di base Dc, centrali in tutti gli anni Cinquanta e Sessanta. Sono gli ambienti della Banca Commerciale che covano il riformismo liberale repubblicano e anche il tentativo di Giovanni Malagodi negli anni Sessanta di costruire un vero partito della borghesia nazionale. La lunga vena del riformismo turatiano (milanese per eccellenza), sostiene il forte insediamento saragattiano, ed è poi la matrice su cui si organizza il craxismo che influenza in modo sensibile anche le punte più rigorosamente riformiste del Pci meneghino. Un movimento religioso, ma dalle forti valenze anche per la cultura politica, come quello di Comunione e Liberazione, esempio mondiale di resistenza alla dittatura del fondamentalismo laicistico, nasce a Milano nel liceo Berchet».
Insomma, secondo lei, Milano è una città politica.
«Milano è una città che ha fatto e fa molta politica: e la fa con un rigore che talvolta manca in altre parti del Paese. Se si trascura questa verità, non si comprende la realtà. La città talvolta ha fallito i suoi obiettivi non perché le idee prodotte qui erano troppo municipalistiche, poco generali, bensì perché non ha fatto i conti con le dimensioni arretrate del potere italiano».
Sarebbe colpa del «potere» italiano l’infruttuosità delle idee milanesi?
«Sì, e delle grandi questioni nazionali non risolte: dalla mancanza di una borghesia come classe dirigente a un movimento operaio su posizioni comuniste invece che riformiste. È il “potere italiano” che va riformato in modo che le idee spesso di qualità prodotte qui non vadano disperse: come è successo molte volte in questo dopoguerra».
Galli Della Loggia trae dalla sua critica anche valutazioni sulla debolezza dei candidati sindaci per il voto del 28 e 29 maggio.
«Conclusioni che parzialmente non condivido. Non si è innanzi tutto compresa l’importanza di un’esperienza politica come quella del sindaco Gabriele Albertini: la sua opera nel ridare fiducia alla città, nel creare un clima dove le idee sono tornate a fiorire. Se considero solo il settore di cui mi occupo, quello culturale, non posso non registrare un’esplosione di attività: i privati, dalla Fondazione Prada a quella Trussardi a quella Pirelli, sono tornati a fare attività alla grande. La Triennale è diventata un centro fantastico di diffusione della cultura dell’immagine, le attività musicali sono esplose. Grandi centri come la Scala hanno avuto momenti di difficoltà ma hanno ripreso alla grande. Un’istituzione sempre più cittadino-regionale come l’Arcimboldi sarà presto un’esperienza pilota a livello internazionale. La grande architettura internazionale sta ridisegnando parti fondamentali della città: con un grande artista come Mario Botta, figlio della tradizione innanzi tutto milanese che lega la modernizzazione al contesto, che lascia segni di grande qualità. Si sono organizzate esposizioni d’arte non solo di grande successo ma anche rilevanti per il loro contenuto di ricerca. Solo l’opacità che il “potere italiano” spande su Milano ha impedito di cogliere fino in fondo la vitalità della città. E questa realtà non è frutto del caso ma di una scelta politica: dello sforzo albertiniano di superare l’egemonia del pubblico sulle energie e le autonomie private e individuali. Questo è uno dei tanti elementi di rivoluzione liberale che si stanno affermando in Milano. E questa impostazione è in piena sintonia con il nuovo candidato che la coalizione del centrodestra ha scelto per la città: una manager come Letizia Moratti, dalla forte sensibilità sociale, non è una scelta apolitica, non è una conferma della mancanza di statualità dei milanesi, non è una rinuncia a contare in Italia. È esattamente il contrario: è l’affermare un nuovo modo di far politica che, se Milano non perderà la testa, può squilibrare quel potere italiano che vuole tutto appiattito e gestito senza alternative. Naturalmente questa è la risposta milanese “liberalmodernizzatrice”. Sarebbe utile che ve ne fosse una anche liberalsocialista: uno dei difetti delle grandi amministrazioni di sindaci come Carlo Tognoli è stato senza dubbio quello di comprimere gli spazi di un’opposizione divenuta quasi evanescente. Mentre la ricchezza della politica (e quindi della comunità) sta nella possibilità di alternative. Ma la sinistra milanese è ancora in una crisi drammatica e ha tirato fuori dal cappello una soluzione assolutamente sbagliata al di là della persona in sé: la proposta di un prefetto come sindaco è una dichiarazione disarmante di subordinazione al potere centrale ed è esattamente il contrario di quello di cui ha bisogno la città.

Poi, peraltro, la scelta è stata gestita da una sinistra allo sbando che ha trasformato un uomo d’ordine in una specie di massimalista che ce l’ha con i padroni, corteggia i centri sociali e così via. Povero Ferrante. Non meritava di finire così».

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