Arriva la sentenza. Ma è morto da un anno

Questo è un processo di principio, e sul nulla. Un processo in cui non sembra esistere l'oggetto della contesa, e il principale protagonista - pace all'anima sua - è passato da un anno a miglior vita. Un esempio di come possa apparire paradossale la giustizia. Con sentenza che arriva fuori tempo massimo, ma consapevolmente arriva.
La storia è quella di Giuseppe Grossi, imprenditore delle bonifiche indagato e fatto arrestare dalla Procura, che l'ha messo al centro di una storia di frodi fiscali e reati ambientali. È l'inchiesta sul quartiere milanese di Santa Giulia, sugli appalti ambientali, i presunti fondi neri trasferiti all'estero, le amicizie con i politici, la passione per gli orologi preziosi e le auto di lusso. Grossi era considerato l'uomo chiave dell'indagine, ma a 64 anni se n'è andato portando con sè i suoi segreti. L'11 ottobre del 2011, in seguito ad alcune complicazioni legate al trapianto di cuore a cui era stato sottoposto qualche mese prima, Grossi si era spento in una stanza del Policlicnioo di Pavia dov'era ricoverato. Quasi un anno fa. Ma giovedì - quasi un anno dopo - è arrivata la sentenza del tribunale amministrativo della Lombardia, a cui l'imprenditore aveva fatto ricorso contro il sequestro di quattro fucili. Fucili dei quali - a quanto sembra - l'autorità giudiziaria avrebbe disposto tempo fa la distruzione.
Insomma, Grossi non c'è più e nemmeno ci sarebbero le armi che voleva indietro. E allora, che senso ha la sentenza del Tar arrivata dopo mesi e mesi dall'apertura del procedimento amministrativo? Non c'è scampo. I giudici di via Corridoni hanno dovuto decidere sul divieto per Grossi - disposto dal prefetto di Sondrio il 18 novembre del 2009, e ribadito dal Viminale il 5 ottobre 2010 - di tenere con sè i fucili, e sono andati avanti nel giudizio anche dopo la morte dell'imprenditore. Sono stati i figli - assistiti dagli avvocati Salvatore Pino e Giovanni Mangialardi - a subentrare al padre nella battaglia legale. Il Tar, dunque, si è dovuto pronunciare sulla legittimità dell'atto impugnato (il divieto di porto d'armi) al momento in cui è stato pronunciato dall'autorità di polizia. Ma così la sentenza diventa uno stonato giudizio post mortem su Grossi, di cui il tribunale ricorda la «pluralità di reati commessi attraverso una consolidata organizzazione operante a livello internazionale», mentre «la conservazione dei titoli di polizia (ovvero il porto d'armi, ndr) avrebbe esposto a pericolo i primari interessi dell'ordine e della sicurezza pubblici». Anche se Grossi non era indagato per fatti di sangue, ma reati finanziari. Nulla di irregolare, perché ai giudici veniva chiesto di esprimersi sulla legittimità del provvedimento del Prefetto all'epoca in cui era stato pronunciato. Però qualcosa sembra arrivare fuori tempo massimo.
Perché è chiaro che i figli dell'imprenditore hanno proseguito nella battaglia legale del padre per riabilitarne la memoria, e non tanto per vedere riconosciuto un diritto postumo al porto d'armi o avere indietro quattro fucili.

Anche perché i fucili, come detto, sarebbero già stati distrutti. Così, per assurdo, se il Tar avesse dato ragione al defunto Grossi - sostenendo che aveva il diritto di possedere le sue armi - oltre a un ricordo più limpido del padre, cosa avrebbe reso la giustizia ai suoi eredi?

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