Bocciati gli aiuti ai milanesi doc I giudici: estenderli a tutti i poveri

Bocciati gli aiuti ai milanesi doc I giudici: estenderli a tutti i poveri

«I servizi destinati a far fronte al sostentamento della persona non possono che essere erogati in base alle condizioni soggettive, mentre qualsiasi altra distinzione è in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza». Morale, il Comune dovrà stanziare un piccolo fondo extra per gli assegni destinati ai poveri. Perché la delibera con cui Palazzo Marino vincolava l’erogazione di un sussidio integrativo a un periodo di residenza di cinque anni in città è «discriminatoria». A stabilirlo è il Tar, annullando così uno degli ultimi provvedimenti assunti dalla giunta dell’ex sindaco Letizia Moratti, con cui si volevano privilegiare gli indigenti milanesi. Le casse pubbliche sono vuote? Non importa, stabiliscono i giudici. Gli assegni sociali siano un po’ più magri, ma vadano a tutti i bisognosi.
La sentenza del tribunale amministrativo costringerà dunque l’amministrazione a rivedere i piani per l’assistenza. Un testo netto, quello del Tar, che ha accolto il ricorso presentato da N.R., disoccupato senza dimora, ospite del dormitorio di via Ortles. Il 20 luglio scorso, l’uomo ha fatto domanda in Comune per ottenere il sussidio, ma Palazzo Marino ha risposto picche. Una delibera del 6 maggio 2011, infatti, prevede che i destinatari degli aiuti comunali siano «i cittadini italiani o stranieri con almeno 5 anni di residenza a Milano». Ma quella delibera, per i giudici, è illegittima.
«Il sussidio integrativo del minimo vitale - si legge nella sentenza - è un contributo economico erogato a persone in situazione di grave disagio socio-economico, finalizzato a garantire alla persona un livello minimo di qualità dell’esistenza, per consentire alla persona condizioni di vita compatibili con la dignità umana». Ed ecco il punto. Perché «trattandosi di prestazione volta al sostegno dei soggetti in condizioni di povertà, essa risponde a esigenze di solidarietà, di inclusione sociale e di eguaglianza e, per tale natura, deve necessariamente avere portata universale e dunque rivolgersi alla generalità della popolazione residente». A sostegno della tesi, il Tar riporta una norma nazionale (328 del 2000) e l’articolo 2 della Costituzione, mentre non esistono leggi - nemmeno regionali - che introducano il requisito della residenza quinquennale.
Il caso del signor N.R., dunque, «assume un carattere indirettamente discriminatorio», che «crea un’evidente disparità di trattamento tra soggetti ugualmente bisognosi». Perché «se la finalità del contributo è quello di garantire un’esistenza dignitosa e contrastare la povertà, è illogico e incoerente subordinare l’aiuto alla condizione di residenza ininterrotta per una durata di cinque anni, che non esprime un maggiore bisogno di accesso al regime delle provvidenze assistenziali riferibile alla persona in quanto tale».
Il Comune si era difeso adducendo ragioni di bilancio. Impossibile - la tesi di Palazzo Marino - soddisfare tutte le richieste di aiuto. Ma secondo il Tar «la limitatezza delle risorse finanziarie non può giustificare l’introduzione del requisito della residenza quinquennale: il taglio dei fondi destinati ai servizi assistenziali potrà condizionare il quantum del contributo, ma non rappresenta una ragione per privilegiare chi risiede da più tempo a Milano, privando di aiuto soggetti altrettanto bisognosi». Anche perché, secondo le proiezioni dell’amministrazione, il requisito dei 5 anni comporterebbe una riduzione degli assegni sociali del 3%.

«Ne deriva - è la conclusione - che alla sua introduzione non si correlano significativi risparmi di spesa, il che consente anche di escludere che l’abolizione del requisito possa comportare l’impossibilità di soddisfare le domande di intervento».

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