«Sono Tony Pagoda un anti-eroe in stile Sorrentino»

L'attrice stavolta è il neomelodico inventato dal regista napoletano

Ferruccio Gattuso

Un volto scolpito nella roccia, una voce ferita dagli anni e dall'esperienza, un canto malinconico che celebra ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. É tutto questo Tony Pagoda, l'anti-eroe («e io amo spassionatamente gli anti- eroi») che Iaia Forte porta sul palcoscenico al Teatro I dal 15 al 20 febbraio ( lun-gio- ven ore 21, mer-sab ore 19.30, dom ore 17, ingresso 18 euro, info 02.83.23.156) - nel secondo capitolo della trilogia tratta da «Hanno tutti ragione» di Paolo Sorrentino. «Tony Pagoda Ritorno in Italia», per la regia dello stesso cineasta napoletano con l'aiuto-regia di Carlotta Corradi, è la storia di un cantante melodico napoletano dallo splendido avvenire dietro le spalle: dopo aver raccolto qualche successo in America, e addirittura essersi esibito al Radio City Music Hall di New York nello stesso cartellone di Frank Sinatra, Tony torna in Italia, atteso per uno show ad Ascoli Piceno. Qui, in un sordido ristorante, l'uomo racconta pezzi di sé e cerca di insegnare alla propria corista (interpretata da Francesca Montanino) le mille astuzie della fascinazione, sul palco e nella vita.

Signora Forte, è stato difficile calarsi anima e corpo in un personaggio maschile all'ennesima potenza, un vero maschiaccio napoletano?

«Non facile, certo, ma la sfida è nella natura delle cose per un attore. Sono stata una suora, una killer, perché non posso essere un uomo? Il teatro poi, a noi attori, viene sempre in aiuto».

In che senso?

«Nel senso che il teatro è rimasto l'unico spazio poetico dove è possibile far credere alla trasfigurazione. Televisione e cinema richiedono la verosimiglianza: sotto il palcoscenico, invece, lo spettatore può credere a tutto. Come nella nostra scenografia: una piccola pedana luminosa può essere il palco del Radio City Music Hall così come un tavolo di un ristorante di provincia. L'immaginazione e la forza della parola fanno tutto».

La potenza della parola, insieme al canto, è uno dei temi centrali della piéce, giusto?

«Sì. Da una parte ci sono le canzoni che interpreto, ma dall'altra c'è il potere di affabulazione di Tony Pagoda. Tony è brutto, ma si fa simbolo di come il fascino si possa costruire attraverso l'uso potente della parola. Oggi tutto è schiacciato nella bidimensionalità di un linguaggio che impone la sintesi: in televisione e su Internet. C'è un neo presidente degli Stati Uniti dal vocabolario ridottissimo, il populismo insegue parole elementari e fugge la complessità. E invece il pensiero va arricchito con le parole. Il teatro, in questo, è educativo».

Paolo Sorrentino l'ha voluta nel suo film più celebre, «La grande bellezza», oggi lei dà corpo alle parole del suo romanzo in teatro: qual è il rapporto che ha con il regista napoletano?

«Io, lui, Toni Servillo e Mario Martone ci conosciamo dagli anni giovanili. Paolo è un artista di talento rinascimentale, sa fare tutto. Ciò che mi ha conquistato di questo testo è l'uso personale del linguaggio, una partitura musicale tipica di Paolo, che infatti si sposa col tema della storia».

Lei vive a Roma da qualche tempo: il suo legame con Napoli resta forte?

«Fortissimo, soprattutto dal punto di vista culturale.

Ho sempre sostenuto, e non lo dico ora che giungo qui a Milano, che Napoli e Milano sono le città più vitali d'Italia. Roma è stanca, è una palude: una città bellissima divenuta inerte. Napoli e Milano sanno definire la propria identità nelle arti: e hanno un pubblico attento».

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