«Era un uomo buono, straordinario, caritatevole. Era mio padre e non aveva alcuna colpa se non quella di essere italiano». Settantasei anni dopo quella notte da incubo, Piero Tarticchio, 85 anni, piange ancora suo padre, portato via da tre uomini armati e da uno sgherro in borghese della polizia politica di Tito. Non l`ha mai più abbracciato. Sette componenti della sua famiglia sono stati infoibati. Pochi mesi prima del padre, già uno zio, don Angelo Tarticchio, sacerdote, fu prelevato dalla parrocchia davanti agli occhi delle sorelle. Arrestato e orrendamente torturato. Lo evirarono, gli misero i genitali in gola e una corona di spine in testa come estremo, macabro oltraggio alla sua fede ormai vietata. Così lo presentarono, nudo, alla madre. Piero non ha mai saputo dove sia finito suo padre. E non sapeva dove piangerlo. «A 76 anni dalla sparizione - racconta commosso - non so neanche in quale foiba sia finito». Eppure quando è tornato nella sua meravigliosa Istria, in questi anni, Piero gli ha sempre portato un fiore: «Non so se potrò ancora tornare - dice - ma quando l`ho fatto ho sempre cercato la tomba più disadorna di tutto il cimitero, la tomba senza nome di uno sconosciuto, e su quella ho lasciato un fiore. Era l`unico modo possibile per ricordare mio padre». Ora un luogo dove andare c`è. Un luogo in cui piangere quei martiri. In piazza della Repubblica finalmente Milano ricorda le vittime delle foibe e gli esuli. Li ricorda con un monumento voluto da tanti, ostinatamente, una stele che Piero Tarticchio ha creato, con la sua perizia artistica e la sua memoria: «Quel piccolo pezzo di terra - racconta - è diventato per noi la nostra terra, Istria, Fiume, Dalmazia. Davanti a quel pezzo di terra io onorerò mio padre».
Una vita intera è trascorsa da quei fatti atroci, da quella notte e poi dalla sua fuga notturna con la madre non ancora quarantenne. Aveva 9 anni. La sua vita Piero l'ha ricostruita a Milano: una famiglia, una carriera da grafico. E poi l'arte e i libri. «Avevo tanto da dire, dovevo parlare della mia terra. Ho pensato di scrivere». Non ha mai cessato di raccontare. «Non posso dimenticare. Noi testimoni ci stiamo estinguendo, pian piano gli esuli muoiono, ma finché ho voce continuerò a raccontare».
Racconta Piero, incontra gli studenti e scrive libri sulla sua terra. Ha diretto l'«Arena di Pola», giornale del libero Comune di Pola in esilio. Testimonia l'orrore di quei fatti ma non solo. Racconta quella ferita aperta che nessuno o quasi voleva curare, in un'Italia che era distratta o peggio, volutamente indifferente, intenzionata a nascondere, a deformare, spesso a «infoibare» anche la storia. «A ogni ricorrenza - osserva - le frange più estremiste cercano di infangare la storia, e il risultato è che infoibano di nuovo queste povere vittime senza alcuna colpa se non quella di essere italiane». «Fascisti? Come lo erano stati gli italiani. In realtà furono uccisi gli italiani, anche del Cln, gli antifascisti. Quelli che erano rimasto erano persone normali. I caporioni fascisti se n'erano andati». «Io sono nato in un paese a pochi chilometri da Pola, Gallesano. Mio padre era un commerciante. Nel 1943 Tito aveva già dato dimostrazione di quello che sarebbe potuto capitare agli italiani. Fu la prima ondata degli infoibamenti. Mussolini aveva chiuso le scuole croate e imposto l'italiano. Quando calarono dai monti i partigiani di Tito, iniziarono a perseguire la loro vendetta e fecero le stesse cose. Poi cominciarono a sparire le persone. Norma Cossetto subì un martirio. Seviziata barbaramente e infoibata. Quello di Don Angelo fu un martirio simile. Avevo 7 anni. Al funerale, mio padre mi teneva la mano e non potevo nemmeno immaginare che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine. A Giuseppe Cernecca, messo comunale a Gimino, furono caricate sulle spalle delle pietre, fu trascinato con una catena per buoi, portato in un boschetto e lapidato. Quando videro i denti d'oro gli staccarono la testa per recuperarli».
Tito voleva quella terra ma non voleva gli italiani. «Le foibe - racconta Piero - erano solo la punta di un iceberg. Sotto, un mare di vessazioni. Un pezzo d'Italia fu ceduta alla Jugoslavia, pagammo noi, così, la sconfitta. Tito vi entrò da trionfatore. Al fascismo in Istria si sostituì il comunismo. Scuole italiane chiuse, italiano vietato, furono nazionalizzati tutti beni dello Stato, della Chiesa e delle confraternite, espropriati quelli dei privati, fu imposto l'ateismo di Stato. Tito si sostituì a Dio, non si potevano più battezzare i bambini, non ci si poteva sposare in chiesa né andare al cimitero col conforto del prete».
Ma anche quando le armi cominciarono a tacere, gli italiani continuarono a sparire. Nella notte tra il 3 e il 4 maggio '45 bussarono alla porta di casa quegli uomini. «La nonna aprì e si precipitarono al piano di sopra. Avevano gli scarponi chiodati e camminando sulle tavole svegliarono anche me che dormivo nel lettino dell'anticamera. Spingevano mio padre col calcio del fucile. Noi avevamo un negozio di generi alimentari, che allora erano razionati, ed entrarono con un pretesto ma la vera accusa era sempre la stessa: Italiani, fascisti. Portarono via i registri, la licenza, 30mila lire in contanti e qualche moneta. Gli legarono i polsi col filo di ferro e lo portarono via. Mia madre all'inizio portava biancheria e da mangiare, lo poteva anche vedere durante l'ora d'aria e qualche volta mi portava. Alla fine di maggio nessuno si affacciò più. Ci raccontarono che dei camion avevano portato via tutti, ma a Fiume non ci arrivò mai. Mia madre venne a sapere di un centro di smistamento per prigionieri nel centro della Croazia. Partì, con quale coraggio si può immaginare, e tornò rasserenata da qualche vaga rassicurazione, ma senza orecchini e perle, che scambiò con qualche informazione. Tre giorni dopo qualcuno le disse: Cetta fai troppe domande. Sei nei registri dell'Ozna. Se ti arrestano, il bambino finisce in un campo di rieducazione. Partimmo la notte stessa per Pola, dove c'erano gli alleati, mentre Gallesano era sotto Tito. Con l'aiuto di un pastore passammo per una strada battuta solo da animali. Era una notte di tuoni e lampi e qualcuno forse saltò la ronda. Passammo sotto i reticolati scampando ai mitra. Arrivammo a Pola. Ma il 18 agosto '46, la strage di Vergarolla, cambiò tutto. Morirono due miei compagni di scuola. Uno era Carlo Micheletti. Il padre, primario, operò per due giorni di fila i feriti. Gli fu portato anche Carlo, ormai cadavere. Dell'altro figlio trovarono solo le scarpe. I gabbiani banchettavano coi corpi maciullati. Agli italiani arrivò così un messaggio forte e chiaro: dovete andarvene. E ce ne andammo. Da Pola partì il 98% della popolazione. Fu l'esodo.
Ma a Venezia il Pci organizzava manifestazioni contro questi poveri diavoli che scappavano lasciando tutto. E anche ad Ancona manifestavano contro gli esuli: Sporchi fascisti - gridavano - il vostro posto è nelle foibe. Tornatevene a casa vostra.
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