Tanti auguri Dino. Il mito dell'Olimpia che sfiorò l'America

Il grande Meneghin compie 65 anni Fu il primo italiano scelto dalla Nba. A Milano giocò una vita. E vinse tutto

Tanti auguri Dino. Il mito dell'Olimpia che sfiorò l'America

Ha compiuto 65 anni domenica scorsa, ma se n'era quasi dimenticato e a ricordarglielo ci ha pensato il figlio Andrea e le due nipotine che gli hanno preparato la torta con le candeline. Ma «nonno» Dino Meneghin non s'è commosso, lui guerriero del parquet reduce da mille battaglie, tante botte date e tante prese; lui che tra Varese e Milano ha vinto tutto quello che c'era da vincere; lui primo italiano a entrare nella Naismith Hall of Fame (2003), in quella Fiba (2010) e anche in quella italiana (2006); lui leggenda dello sport di casa nostra messo dal Coni tra i 100 atleti di sempre; lui ancora primo tra i nostri a essere scelto nel draft Nba.

«Lasciamo perdere, New York mi aveva chiamato nel 1970, ma a causa di un'operazione al menisco ho dovuto rinunciare», racconta. «Ma se rinasco, vado io da solo in America senza farmi chiamare». E giù una bella risata. Perchè questo è Dino Meneghin; un panino col salame, un bel bicchiere di rosso e un sorriso aperto e sincero, 65 anni portati alla grande, 204 centimetri di altezza in un fisico che sa di quercia. E che non vi salti in testa di litigare con lui, sarebbe come fare un frontale contro un tir.

Ma il Meneghin veneto scoperto a 16 anni dal Varese di Nico Messina («Mi ha insegnato perchè si deve giocare al basket»), ama Milano perché all'ombra della Madonnina ha giocato dal 1981 al1 1990 e vi è ritornato nel 1993 quando, alla tenera età di 44 anni, ha chiuso una carriera inimmaginabile. «Si, a Milano mi trovo davvero bene, perchè è una città dalle mille opportunità». «All'estero è la città italiana più conosciuta, è fonte di lavoro e impegno economico, dà un dinamismo particolare e a me ne ha regalato tanto, ma permette anche di restare nell'anonimato per chi preferisce la riservatezza».

E il gigante buono nato ad Alano di Piave ha tanti bei ricordi di Milano. «In quel decennio nell'Olimpia, io vi sono arrivato a 30 anni quando sarebbe già ora di smettere, non è che avessi molto tempo libero, perché la mia vita era casa e allenamento al Palalido. La sera non avevo nemmeno la forza di uscire, solo qualche cena da Premier e Ferracini. Ma avevo un debole per Piazza Castello e per il carico di storia che contiene. Ho vissuto lì per cinque anni, in una mansarda che era la mia oasi di pace, senza il rumore delle partite, dello spogliatoio, dei tifosi. Guardavo il parco dalla finestra e allora portavo fuori Lola, il mio pastore tedesco e, attraversando il parco, pensavo alla vita del passato, agli Sforza e ai Gonzaga, a Leonardo e alle belle dame, alla distesa di verde che arrivava fino al Duomo. E sognavo immaginando di vedere una dama affacciarsi da una finestra del Castello...». Ma anche un brutto ricordo: «Che tristezza quando il Palazzo dello sport è andato giù per la neve. Quante belle cose abbiamo fatto nel Palazzone».

È serio adesso Meneghin e allora per fargli tornare il sorriso basta citargli il nome di Dan Peterson. «Mi ha allungato la carriera dopo i 30 anni coi suoi programmi a lunga scadenza e quando mi ha detto che sarei arrivato alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, gli ho detto: è pazzo. Ma aveva sempre ragione lui, come psicologo dava carisma e motivazioni alla squadra. Insomma, per me è stato come un fratello maggiore. E mi divertivo davvero come un pazzo quando durante gli allenamenti, per farci giocare meglio, ci diceva: do 5mila lire a chi vince. E noi ci mettavamo l'anima perché il bello era fargli scucire, lui taccagno come nessun altro, un concentrato di genovese e scozzese, quei “cinque sacchi”. E bisognava guardarlo in faccia in quei momenti!».

Già, le scarpette rosse di quei tempi e l'Olimpia di oggi, e Meneghin è categorico: «Allora tanti italiani e solo due stranieri di caratura, campioni americani che arrivavano gratis dal College. Oggi il contrario con gli italiani che fanno fatica ad emergere e tanti stranieri brocchi che costano tanto e non rendono. Ma anche il basket è cambiato, ai miei tempi si pensava a giocare, vincere e divertirsi. Adesso c'è più velocità, atletismo, istinto, troppi tiri da tre punti e gli allenatori curano all'estremo le geometrie, quasi giocando a scacchi. Ecco perchè non ho mai voluto fare il coach: io sono un tifoso, mi immedesimo e vivo la partita col cuore». Però l'Olimpia di allora, un altro mondo rispetto a oggi: «Ho avuto come compagni e avversari grandissimi giocatori ed è impossibile stilare una classifica di merito. Ma a Milano atleti come D'Antoni, Carroll, McAdoo, Premier, Bariviera, Gallinari e Franco Boselli faranno sempre parte della mia squadra ideale».

Oggi Meneghin, dopo 4 anni di presidenza della Fip («Io non sono un politico, non è nel mio

dna»), è vicepresidente della federazione internazionale e si diverte solo a guardare le partite e anche lui ne è sicuro, anche se ha il pudore di non dirlo: di altri Meneghin non ce ne sono più, lo stampo è stato distrutto.

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