"Il mio Falstaff alla Scala l'ho ereditato da Strehler"

La scenografa dell'opera di Verdi (a teatro fino al 7) Leila Fteita: "Tutto fatto a mano, come voleva il mio prof Frigerio"

"Il mio Falstaff alla Scala l'ho ereditato da Strehler"
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La scenografa Leila Fteita è un vulcano fattosi donna: papà era un diplomatico di Tripoli, la città dove nacque nel 1960, ma che lasciò nella prima fanciullezza. Fteita ha firmato 500 titoli, fra drammi in prosa e melodrammi, lavorando coi maggiori registi da Giorgio Strehler a Bob Wilson, Ermanno Olmi, Luca Ronconi, Peter Stein. Lo spettacolo «Falstaff» di Verdi creato nel 1980, in scena alla Scala fino al 7 febbraio, lo seguì come assistente di Ezio Frigerio, ma quel che vediamo in questi giorni è la sua ricostruzione, le scene vennero vendute al Bolshoi, dunque ha ripreso in mano i bozzetti.

Aveva 20 anni quando Strehler firmò «Falstaff».

«Lo firmarono Strehler e Frigerio, li ho sempre visti discutere e pure litigare sull'appropriazione dello spettacolo».

Perché il regista ruba la scena, ultimamente anche al direttore d'orchestra. Guadagna più di voi scenografi.

«Almeno un 20% in più».

E la cosa non le va giù.

«Continuo a combattere per quest'anomalia, siamo i fratelli minori, ma le scene sono fondamentali, chiedono studi e perizia particolari».

Come si lavorava con Strehler?

«Benissimo. L'ultimo suo spettacolo, Mémoires, rimasto incompiuto poiché morì, l'aveva affidato a me. Andavo nel suo studio in segreto per non ingelosire Frigerio».

Che dire del caratterino?

«Era esigentissimo, burbero, un grande attore. Una prima donna che si amava molto e voleva essere al centro dell'attenzione. Ma lavoravamo benissimo».

Difficile però non scontrarsi.

«Solo piccole frizioni liquidate con un sorriso. Un giorno stavamo lavorando a uno spettacolo al Grassi, e lui mi chiese di andare in palcoscenico come comparsa per provare le luci. Mi rifiutai. Dici no al tuo maestro?, tuonò. Poi si mise a ridere, lo intrigava il mio senso d'indipendenza».

Ha ricostruito questo «Falstaff» con la tecnica di 45 anni fa?

«Inevitabile, altrimenti non saremmo stati filologici. Tutto scolpito a mano, stuccatura sopra l'intonaco. Prima dell'inizio vado sul palco per spargere la paglia per l'aia».

C'è chi bolla questo spettacolo come archeologia.

«La Pietà di Michelangelo, il Colosseo, le tele di Caravaggio sono archeologia, ben venga dunque l'archeologia».

Disegna ancora a mano?

«Eh sì. Anche perché sono arrivata alla scenografia proprio perché adoro disegnare».

Le ultime generazioni sanno disegnare?

«Assolutamente no, ed è un peccato. Si affidano al computer. Anch'io dopo aver sbozzato l'intero spettacolo a mano passo al computer. Però è limitante non saper prendere in mano una matita».

Gli scenografi italiani sono sempre stati i numeri uno? Oggi che succede?

«Siamo imbattibili per la maestria nell'uso della pittura, scultura, costruzione. Siamo i migliori, però sono lontani i tempi in cui i nostri laboratori di realizzazione erano richiesti ovunque».

Correvano gli anni?

«Ottanta, Novanta. Poi sono arrivati i registi stranieri che a loro volta si portano i propri scenografi, anche perché il gusto italiano non piace a tutti».

Anche noi fatichiamo a digerire tanta scenografia del Nord-Europa, specie tedesca...

«Non sono nazionalista, però dovremmo proteggere la nostra capacità artistica. Il sì finale parte dalla stanza dei bottoni di un teatro, e noi esistiamo se un teatro ci chiama. Ho colleghi che hanno smesso di lavorare. Ho sempre lavorato tanto, ma in Italia la mia professione è in sofferenza».

Casa sua è il duplicato di un teatro come accade coi cantanti?

«Il teatro è la mia seconda pelle, sono innamorata a tal

punto del mio lavoro che non cerco compensazioni. Ma proprio per questo la casa deve essere la mia abitazione e punto. Ha tante piante, tappezzerie ovunque, quadri: in camera ho un'intera una collezione di dipinti di rose».

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