Il mio Indro maestro nello stupire

Indro Montanelli era incapace di scrivere male. I suoi diari, che finalmente ho potuto leggere per intero, riuniscono due qualità che molto raramente risultano abbinate in questo genere letterario: la spontaneità della notazione, buttata giù a caldo e la sapienza d’una prosa raffinata. Tutti gli ingredienti che hanno reso Montanelli famoso sono presenti in questi suoi ricordi: l’eleganza, la nitidezza, il piacere supremo della battuta, la forza del ragionamento, la magia del paradosso, l’impertinenza dell’ironia.

In generale Indro è un fiorettista della polemica, non gli capita spesso di concedersi al sarcasmo. Quando lo fa, colpisce duro. E insieme a tutto questo una passione e una coscienza civica straordinarie. Pochi uomini pubblici dell’Italia contemporanea hanno avuto la schiena diritta quanto Montanelli. Che proprio per essere onesto e incorruttibile, ma anche uomo di mondo, non esita a confessare, nelle pagine di «I conti con me stesso», le piccole inevitabili ruffianerie di cui è costellata la vita d’uno come lui; anche quando spinga il disdegno per gli onori ufficiali fino al punto di rifiutare il laticlavio a vita.

Per la cui conquista tanti nomi noti della letteratura e della politica, a parole grondanti moralismo da ogni poro, si sarebbero prestati a ogni abbiezione. Montanelli riesce a essere indulgente - ho incontrato pochi uomini più disposti di lui a capire le debolezze altrui - ma non riesce a essere insincero. Voleva bene a Guido Piovene. Ma in data primo ottobre 1966 annotava: «Piazzesi racconta che Adelfi (Nicola ndr) incaricato dalla Tv di ordinare un documentario sulla seduta della Società delle Nazioni (nel ’35 mi pare) in cui l’Italia chiese l’espulsione dell’Abissinia per essere libera di aggredirla, ha trovato una sequenza che mostra i giornalisti italiani impegnati a fischiare il Negus. I più scalmanati Lilli e Piovene». Di mio aggiungo al numero Paolo Monelli, per il cui talento ho tuttavia una sconfinata ammirazione. Il bello, o il brutto è che Montanelli - non avendo fischiato - fu poi additato come fascista da qualche fischiatore. Montanelli non si vendicava, era molto cavalleresco, una volta sbollita l’ira del momento. Ma attirare la sua attenzione poteva risultare pericoloso, anche quando gli si era abbastanza simpatici.

Non faceva sconti. Sentite cosa diceva, il 7 ottobre 1966, di Guido Carli, ritenuto da quasi tutti un fuoriclasse dell’economia. «Che bella cosa, se si potesse ghigliottinare Carli, isolandone la testa. Non ne conosco di più lucide ed efficienti. Ma quello che preoccupa è il resto. L’uomo non ha carattere, è impressionabile ed emotivo. La sua vita privata lascia - dicono - a desiderare. M’hanno raccontato che sabato scorso, partendo per il week-end, è andato a prendere certe carte alla Banca d’Italia in maglietta. Menichella, quando lo ha saputo, ha fatto il finimondo». Maestro nello stupire, Montanelli appuntava il 2 ottobre: «Giornata nera: la Fiorentina battuta in casa dalla Juventus per 2 a 1». E il 3 ottobre: «Giornata ancora più nera. Con un tight imprestatomi da Nino Apostoli devo fare il testimone al matrimonio di Alberto Corrias con una ragazza di Innsbruck». Ma è miracoloso che sui due piedi fosse stato scovato un tight con le misure di Indro. Una buona parte dei diari è dedicata a due anni cruciali (1977-1978) nella vita di Montanelli e nella vita del Giornale.

Con la gambizzazione di Indro (e la miseria di alcune successive reazioni), con le difficoltà del suo quotidiano, con l’entrata in scena di Silvio Berlusconi. Al quale Indro non riserva elogi sperticati, che di sicuro non erano nelle sue corde: ma contro il quale lancia qualche frecciata bonaria, volendo sottolinearne talune ingenuità o pacchianerie da ultimo arrivato ai piani alti dell’imprenditoria e della finanza. Ho ritrovato, in queste pagine - alcune bellissime, da inserire senza pensarci un momento nelle antologie - tanti nomi di colleghi che mi furono cari. Colleghi molti dei quali non ci sono più. E non c’è più quel genio unico che ebbe nome Indro Montanelli, e che non volle essere a capo d’un partito per continuare ad essere padrone di se stesso. Incitò invece Gianni Agnelli (14 novembre 1977) a impegnarsi in politica. «Gli dico che tocca alla gente come lui scendere in lizza. Finge di nicchiare ma è lusingato: “Ma con quale lista?”.“ Non certo con la Dc”. “Con quella mai. Piuttosto col Psi”. “Ma qual è il segretario del Psi che riuscirebbe a far inghiottire al suo partito un candidato come Agnelli?”. “Già”».

E dopo tanti tentennamenti piombò un giorno nell’arena - contro il parere di Indro - il Cavaliere. Consentitemi, a conclusione di queste righe, un cenno autoelogiativo: non per mano mia ma per la «lettera 22» di chi ci ha lasciati. 8 agosto 1977: «Da Milano mi leggono la risposta di Zanone al mio articolo. Dico a Cervi di pubblicarla come fondo con una replica che affido alla sua penna. Quando me la legge, mi pare di averla scritta, tanto bene riflette il mio pensiero». 9 agosto. Dopo che i terroristi di Azione comunista avevano fatto saltare un ripetitore di Telemontecarlo «ordino di dare il massimo rilievo alla notizia e di dedicarle domani un fondo di Cervi... Cervi mi legge il fondo che ha preparato. Perfetto, come sempre».

Così si capisce perché con Indro abbiamo

potuto firmare tredici volumi della Storia d’Italia. Quella forte amicizia che ha segnato decenni della mia vita la serbo come un bene prezioso, e la porterò con me il giorno, ormai vicino, in cui anch’io me ne andrò.

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