La molla della fragilità

Quando Romano Prodi accusa il centrodestra di condizionare, per ottenere la ratifica del nuovo sistema elettorale, il presidente della Repubblica con lusinghe e minacce, di fatto insulta un Carlo Azeglio Ciampi che viene presentato come psicolabile e ricattabile. Non è semplicissimo spiegarsi perché il candidato premier del centrosinistra si lanci in un'operazione così spericolata e apparentemente così controproducente, che abbassa il suo profilo già non altissimo di uomo di Stato. Il problema è che Prodi è un leader non assolutamente in grado di guidare la sua coalizione: non ha le capacità di manovra dei vecchi topi d'apparato ex Pci, ora diessini (e neanche quelle di democristiani di lungo corso come Franco Marini) e non ha nemmeno un rapporto carismatico con il suo popolo che l'ha votato ampiamente alle primarie solo perché è colui che unisce un fronte in cui ciò che conta è esclusivamente l'odio per Silvio Berlusconi. Prodi non è scelto dai suoi, così massicciamente, per quello che «è» o «è stato». Non è votato per la sua mediocre figura di economista (grande studioso dell'economia delle piastrelle), non per la sua esperienza negativa di manager di Stato e da grande pasticcione nelle consulenze per affari internazionali, non per la sua dimenticabile esperienza di premier licenziato in tronco da Massimo D'Alema o per l'inconsistenza della sua guida della Commissione Europea. Prodi è scelto per quello che non è. Non è «berlusconiano», non è «anticomunista» (ma neanche ex comunista), «non è troppo laicista» ma neanche troppo attento alle preoccupazioni che oggi scuotono la Chiesa, e soprattutto è poco ingombrante: dalla Margherita ai Ds a Rifondazione tutti si ricordano come fu facile condizionarlo (o metterlo da parte quando divenne necessario). Gli unici che lo temono sul serio sono alcuni ambienti economici perché ha troppi omini da piazzare.
È, dunque, la fragilità politica la molla che lo spinge a queste assurde intemerate apparentemente contro il centrodestra, di fatto anticiampiste. Arroventando il clima vuole impedire che i diessini facciano politica sui temi sul tavolo dall'Irak alla Tav, vuole bloccare le manovre di un Carlo De Benedetti che si prepara a incoronare Walter Veltroni, vuole intervenire sulle operazioni del Corriere della sera che non capisce bene e gli paiono troppo filo-Rutelli, vuole condizionare le proposte di candidature alle elezioni che Marini farà per conto della Margherita. Come gli ha spiegato il suo folletto-ideologo Arturo Parisi, il professore bolognese può dominare il centrosinistra solo se produce uno stato d'emergenza continua, se invece di ragionamenti, suscita effervescenza movimentistica, se non si creano assetti ed equilibri stabili nella politica in generale e anche nella sua coalizione. Prodi può contare qualcosa solo se si può presentare come salvatore di una Patria in pericolo, in declino, allo sbando. Il suo unico asset è rappresentare «il male minore» sia nella sfida con il centrodestra sia in quella per la leadership del centrosinistra. Solo in una situazione catastrofica può sperare di non far cogliere i suoi evidenti limiti. Se si ragiona, se si valutano le questioni nel merito, allora tornano i partiti, i loro gruppi dirigenti.

E Prodi si deve mettere il saio, spargersi cenere in testa e scongiurare in ginocchio Marini e Piero Fassino perché gli garantiscano l'elezione almeno del fedelissimo Ricky Franco Levi.
È inutile osservare come questo modo di far politica, provocando turbolenze, non aiuti un'Italia che ha bisogno di serenità per affrontare le sfide difficili di questo inizio secolo.

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