Accusato di "islamofobia" per aver criticato il velo. Ma le donne musulmane lo difendono

La comunità musulmana canadese si è scagliata contro un pediatra che in un articolo ha definito l'hijab uno "strumento di oppressione". Ma un gruppo di donne islamiche lo difende e su Twitter lancia l'hashtag "lasciateci parlare"

Accusato di "islamofobia" per aver criticato il velo. Ma le donne musulmane lo difendono

"Non usare alcuno strumento di oppressione come simbolo di diversità e inclusione". Si intitolava così la lettera inviata al Canadian Medical Association Journal da un medico dell’ospedale pediatrico di Montreal, il dottor Sherif Emil lo scorso dicembre. Una presa di posizione netta sull'imposizione del velo islamico a bambine e ragazze, che ha avuto l’effetto di spaccare il Canada in due. Da una parte chi ha tacciato il medico di islamofobia, dall’altra i difensori della libertà di espressione, tra cui decine di donne musulmane che si sono rispecchiate nelle sue parole.

Tutto parte dalla decisione della rivista di mettere sulla copertina di uno degli ultimi numeri una bimba con il capo coperto dall’hijab. L’immagine ha suscitato la disapprovazione di molti, compreso il chirurgo pediatrico, che ha deciso di mettere nero su bianco il suo pensiero in una lettera inviata alla redazione. "Molte delle mie studentesse, colleghe, madri dei pazienti e anche qualche paziente adolescente indossano il velo: rispetto ogni donna con la quale interagisco, come qualunque scelta che esprima la propria identità", è la premessa del medico. "Ma il rispetto – ha proseguito - non altera il fatto che hijab, niqab e burqa sono anche strumenti di oppressione per milioni di ragazze e donne in tutto il mondo che non hanno scelta".

L’esempio è quello del regime talebano in Afghanistan. Ma cita anche le "denunce" di tante donne e bambine. Il medico non usa mezzi termini: "In tante sono state traumatizzate da questa pratica, che credo, francamente, confini con un vero e proprio abuso sui minori". Parole, queste, che hanno scatenato un vero e proprio terremoto politico. Tanto che oggi sul sito del Canadian Medical Association Journal al posto della lettera del dottor Emil c’è un avviso che spiega ai visitatori come l'articolo sia stato oscurato perché "il processo editoriale era difettoso e di parte e non avrebbe dovuto essere pubblicato".

Ad insorgere, infatti, come si legge sui media locali, è stato il Consiglio Nazionale dei musulmani canadesi, che ha accusato il medico di "islamofobia". Con la comunità musulmana si è schierata anche una serie di giornalisti e opinionisti. Alla redattrice capo della rivista, Kirsten Patrick, travolta da un’ondata di feroci critiche, quindi, non è rimasto altro da fare che scusarsi pubblicamente. "Mi sono decisa a pubblicare la lettera dopo aver ricevuto la telefonata di una donna medico musulmana che ha obiettato che l’immagine usata dal CMAJ le ha fatto rivivere il trauma di essere costretta a coprirsi il capo da bambina", si è giustificata su Twitter. Ma, ha aggiunto qualche riga dopo, "sostenere che l’hijab è uno strumento di oppressione non è vero ed è offensivo".

L'iniziativa delle donne musulmane contro il velo

A difesa di Sherif Emil, però, a sorpresa, è arrivato un gruppo di donne musulmane che sui social ha lanciato la campagna #LetUsTalk, letteralmente, "lasciateci parlare", per difendere il diritto (del medico, e anche il loro) a "criticare" il velo islamico.

Tra loro c’è Yasmine Mohammed, attivista per i diritti umani che in un libro dal titolo Unveiled: How Western Liberals Empower Radical Islam, aveva denunciato come il "buonismo" delle società occidentali abbia finito per rafforzare, di fatto, i fondamentalisti. "In Canada sono stata forzata ad indossare l’hijab a 9 anni, il niqab a 19. Sono stata rinnegata e minacciata di morte perché volevo scegliere cosa mettere sul mio corpo. In Occidente mi dicono che condividere la mia storia causerà islamofobia", ha scritto in un post su Twitter pubblicando una foto della sua infanzia con il velo accanto ad una recente a capo scoperto.

Ad aderire all’iniziativa è anche la giornalista di origini iraniane Masih Alinejab. "In Iran mi è stato detto che se non indosso l'hijab, vengo cacciata da scuola, arrestata, frustata, picchiata e cacciata dal mio Paese", scrive anche lei in un tweet. L’hashtag in poche ore dilaga in rete e la "rivolta" delle donne musulmane canadesi diventa virale. Tanto da finire sulle pagine dei giornali internazionali, dall’Iran alla Germania.

Anche qualche quotidiano locale, come il Journal de Montréal, ora si interroga sulle conseguenze del trattamento subito dal dottor Emil, e sull’importanza di "assicurare che la critica alle religioni sia sempre permessa in Canada e non sia

bollata come razzismo o crimine d’odio". Si tratta, per il quotidiano canadese, di una condizione indispensabile per "tutelare i diritti delle donne, il rispetto delle pari opportunità" e la "libertà d’espressione" nel Paese.

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