Cemento, razzi e memorie di #guerra: Israele in bianco e nero

Angherie, povertà, ingiustizie. Per capire cosa sta succedendo in Israele, bisogna vivere quel Paese e respirare quell'aria

Cemento, razzi e memorie di #guerra: Israele in bianco e nero

Israele è un paese strano. Bello, ma strano. E della questione che lo riguarda da fin dalla sua nascita - quale figlio illegittimo di quegli strateghi occidentali che disegnarono prima i confini della Palestina per disfarli poi - tutti parlano e tutti vogliono prendere posizione. Spesso senza sapere. Spesso tanto per dire. Spesso senza aver mai visto con i loro occhi quelle terre. Forse Tel Aviv, o le spiagge di Giaffa, ma non Ramallah, non i quartieri di confine, non i muri di cemento altri cinque metri, non la striscia di Gaza. O anche soltanto Gerusalemme Est la sera tardi: quando il quartiere si svuota, e rimangono i soldati israeliani a fare le ronde, in coppia, in tenuta anti-sommossa, mentre giovani e anziani arabi li provocano, sbeffeggiandoli cercando una reazione che potrebbe rendersi scintilla. E la scintilla, lo vediamo, fa presto a tramutarsi in qualcosa che somiglia alla guerra.

Nell’epoca attuale sembra essenziale avere per forza una posizione per determinate cose: non si può fingere di non sapere né svelare sugli onnipresenti social di non essersi mai sforzati ad informarsi per tentare di capire. Allora si posta e riposta, abbandonandosi a un tifo da stadio mentre il sistema di difesa missilistica Iron Dome entra in azione per proteggere i quartieri residenziali dai razzi sparati dal confine. E gli opinionisti di fronda affilano comodi le penne per colpire il più forte o levano gli scudi in difesa del più debole. Ma è difficile spiegare cosa rimanga nella memoria di chiunque cerchi di capire quale clima si respira, ogni giorno, in quella terra contesa.

Quando penso a Israele, il primo ricordo che affiora nella mia mente sono le colline sparse e vuote, che ricordano la carta con cui decoriamo il nostro bistrattato presepe. Una distesa di verde tenue, intervallata da piccole pietre chiare, e il mare che si scorge in lontananza dalle alture sono scorci sufficienti a far dimenticare ogni questione politica e ogni conflitto religioso, quando li attraverso. Questo finché non spuntano alcuni soldati tra le colline. In uniforme verde oliva, elmetti con la rete dello stesso colore del deserto. Un centinaio di metri dopo, sul bordo nella strada che taglia la Samaria, ci sono altri soldati che camminano in fila indiana con in braccio i loro fucili d’assalto. Prima di sparire dietro la curva. Ragazzi della mia età. Alcuni più giovani.

I soldati in Israele sono una costante. Appena arrivati all’aeroporto Ben Gurion, all’andata, ce n’erano molti che tornavano per rivedere le famiglie. Anche se non si conoscevano, si univano in grandi cerchi danzanti. Ballavano la hora, con le mani sulle spalle gli uni degli altri, sorridenti. Belli da vedere; ma ancora di più di loro, belle erano le donne che nella stessa uniforme sorvegliavano la spianata delle moschee. Una di loro, bionda come una valchiria, con lentiggini dolci e sguardo deciso, sembrava imbronciata e fredda, così stretta al fucile d’assalto che stonava su di lei come avrebbe stonato un diadema di brillanti sulla mia fronte. Eppure in Israele non è una scelta rara come da noi: il servizio di leva per le donne è obbligatorio, 24 mesi. Cultura matriarcale.

Non mi colpirono meno, però, gli ortodossi che vedemmo pregare nel tempio di Davide: come fossero in preda ad un’estasi mistica e potente, con gli occhi chiusi, come fossero fase di trance. Le loro piccole ciocche di capelli che spuntavano dondolanti dalle kippah scure. Ricordo che la stessa sera il tassista arabo che ci riportava in albergo, dopo alcune domande ci raccontò dell’esproprio della sua casa, della sue immense difficoltà, ma anche della fortuna che aveva ad avere un lavoro e un pass per attraversare il confine, che lì è diviso dalle “barriera di separazione” (anche detta “muro della vergogna”, ndr), lunga oltre settecento chilometri di inquietante cemento armato. Qualcosa che sembrava distante anni luce dal silenzio che permaneva nei vicoli deserti del mercato nella Città vecchia, le sera tardi, mentre passeggiavo con il sapore del succo di melograno in bocca. Lì sembrava di vivere nel passato. Come mi sembrava di vivere in una diverso pianeta, quando fissavo i payot di tutti i quei bambini così ubbidienti, fermi immobili di fronte al Muro del pianto. Protetti grandi cappelli di pelo dei loro padri. Intenti a toccare le grandi pietre bianche tra le cui fessure sono state affidate le loro preghiere, scritte su piccoli pezzi di carta, piegati e arrotolati a migliaia. Ricordo pensai ad una cosa semplice allora: che io non credo. Che sono agnostico. E ripensarlo oggi mi fa tornare alla mente parole di Montanelli: “Io non sono ebreo ma lo dico con rincrescimento”. Forse con il tempo capisco meglio perché lo diceva. Eppure guardare al Monte degli Ulivi, dove tutte quelle tombe attendono il giorno della resurrezione, o pensare alla scala. La scala poggiata sulla chiesa del Santo Sepolcro, ferma lì da tre secoli perché nessuno sa chi ce l’abbia messa, e dunque nessuno, ebreo, cristiano, ortodosso osa toccarla per non accendere un litigio. Continua ancora a farmi strano: a me che tra le file di fedeli di tutte le confessioni in quel luogo sacro, bighellonavo senza dio. Osservando quelle pietre millenarie cercavo di riflettevo sul senso di un pellegrinaggio in Terra Santa. E sulle guerra che avevano scandito per millenni la terre contese, la Mosche di Gerusalemme, i crociati, a Settembre Nero, a Moshe Dayan con la sua benda che entra a Gerusalemme nel ’48. Riflettevo poi sulla devozione. Sulla fede che a me manca adesso come allora; e poi sempre al caro Montanelli, che quasi incolpava Dio per non avergliela concessa. Sul motivo che muove la guerra: prima religione, poi interessi, poi vendetta, che decennio dopo decennio, finisce per essere l’unica fiamma che anima il conflitto.

Tra tutto quello che riaffiora nella memoria, il ricordo più nitido è una casa quasi priva di arredo. La casa di una famiglia cui ci hanno portato a fare visita. Un quadrato di pietre e cemento. Un grappolo di abitazioni che sembravano quasi abbandonate a loro stesse, su una di quelle colline vuota e isolate. Le abitazioni di alcuni “deterrenti umani”. Allora li chiamai così nelle mie annotazioni; perché mentre ci offrivano dolci e dissetanti bevande zuccherine, ci spiegarono il motivo della loro presenza: da lì che Hamas lanciava i razzi sull’aeroporto e, sebbene gli aerei della El Al fossero forniti dello speciale sistema laser per sventare la minaccia, tutti gli altri potevano sempre cadere vittime di una rappresaglia. Questo diceva il padre di tre bambini che si rincorrevano nel piccolo salone. “Finché noi siamo qua, Hamas non si spinge così vicino; può sparare i razzi solo da posizioni più arretrate”. Con loro lì, non avrebbero osato rioccupare per timore di feroci rappresaglie. Le feroci rappresaglie che lo Stato Ebraico promette in queste ore dopo la nuova escalation.

“Quando vediamo i razzi in cielo, la prima cosa che facciamo, è chiamare i parenti che vivono a valle per avvertirli, per assicurarci che vada tutto bene”, raccontavano. È strano pensare a una vita da ostaggio di una collina. Di trascorre una vita da deterrente umano come accade anche a Gaza, dove Hamas assembla i razzi da lanciare oltre confine, spesso nascondendo gli arsenali e i quartier generali nel cuore di zone densamente abitate: per inibire i raid dell’aeronautica israeliana.

Ricordo che mentre l’uomo ci spiegava con l’ausilio di alcune carte geografiche, sua moglie, signora dal sorriso timido e un colore di capelli spento, continuava a rabbonire i bambini, offrendoci altri dolci di sfoglia. Fu solo allora che con la coda dell’occhio notai come si trascinava appresso un piccolo carrellino di plastica grigia, che per renderlo più grazioso, dove aveva foderato personalmente con dell’erba finta. Sopra ci aveva applicato piccoli fiori gialli, margherite e girasoli. Le serviva a portare la batteria di un oggetto che teneva legato alla vita. Un dispositivo medico che non avevo mai visto. Evidentemente doveva essere molto malata.

Mentre i bambini correvano avanti e indietro, inondandola di richieste, il marito continuava a raccontarci delle difficoltà delle case occupate, delle proprietà reclamate e dalle lotte tra ebrei e arabi. Lo faceva senza odio, sembrava più rassegnazione in attesa di una pace lontana millenni. Forse non ne provava di odio. Forse non voleva svelarlo a noi. È difficile mettersi nei panni di chi vive in guerra tutti i giorni. Da una parte come dall’altra. È per questo che la sospensione del giudizio dovrebbe essere la scelta migliore: perché non capiremo mai.

Nel momento in cui ci congedammo, ricordo la coppia rimasta abbracciata sulla porta, lei con il volto segnato e le occhiaie profonde, lui con una barba folta e gli occhi scuri e rassegnati. Non erano poi tanto differenti da quelli del tassista arabo che ci aveva raccontato la sua storia, sebbene con molte meno parole, perché non parlava bene inglese e lo avevamo incontrato per caso. Ci teneva a rispondere alle nostre domande e dirci come stavano le cose: della povertà, delle angherie, delle prepotenze del governo; quasi fossimo un’occasione per sfogarsi.

Non valse meno quel racconto. Seppure senza dolci. Anzi mi portò alla stessa medesima conclusione: ci vuole davvero tanta fede per continuare a rispettare un dio che ti lascia vivere in queste condizioni. Dio se ce ne vuole.

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