Si chiama Kalon Norzin Dolma ed è il ministro dell'informazione e delle relazioni internazionali dell'amministrazione centrale tibetana, il governo fuggito in India insieme al Dalai Lama dopo la rivolta del 1959 contro la Cina. È gentile ma ferma quando parla della situazione che sta vivendo oggi il suo Paese.
Qual è la situazione attuale tra Cina e Tibet?
Abbiamo avuto un processo di dialogo tra i rappresentanti tibetani e quelli del governo cinese. Ma quel dialogo si trova ad un punto morto dal 2011. Tra il 2001 e il 2011 abbiamo avuto l'opportunità di rappresentare le richieste del popolo e inviarle in forma scritta al governo cinese. Non hanno risposto positivamente perché non la ritenevano una proposta genuina e proveniente da noi. L'hanno rigettata sulla base dell'indipendenza del Tibet che, secondo loro, non poteva e non può essere messa in discussione. Da quel momento in poi non ci sono più stati processi di dialogo.
Come vivono oggi i tibetani?
Al momento, la situazione in Tibet è critica. Dall'occupazione della Cina, nel 1959, il governo cinese ha implementato politiche sempre più oppressive e repressive, promuovendo la cultura di Pechino. È stata attaccata l'identità tibetana, anche nella cultura e nella religione. Siamo molto preoccupati. Non c'è libertà di espressione, di religione, e anche in termini di educazione non abbiamo il diritto di parlare la nostra stessa lingua. È per questo che è necessario raccontare ciò che sta accadendo in Tibet. Abbiamo espresso la richiesta di avere più libertà e il ritorno del Dalai Lama.
Secondo Human Right Watch, la Cina starebbe raccogliendo il Dna dei cittadini del Tibet. Perché?
Questo è stato uno sviluppo molto preoccupante per noi. La Cina è attiva nell'intensificare la sorveglianza di massa contro i tibetani in ogni forma, attraverso le persone ma anche con i mezzi digitali. È così che hanno mandato molti tibetani in prigione. Con la raccolta del Dna sono andati ancora oltre. È come se stessero realizzando una codificazione etnica.
Un altro fronte aperto è Taiwan. La Cina vuole davvero conquistare l'isola?
Penso che l'ultimo obiettivo possa essere quello di portare Taiwan a riunificarsi, a farla diventare una provincia cinese.
Che cosa l'Occidente non ha capito riguardo la Cina?
Non possiamo nascondere il fatto che la Cina sia una superpotenza in via di sviluppo. È cresciuta economicamente e militarmente. Molti Paesi hanno questa opinione. Dall'altro lato bisogna sottolineare che la Cina non rispetta i valori universali di libertà, giustizia e democrazia. Non rispetta i diritti umani che sono fondamentali per ogni buona interazione. Xi Jinping è in difficoltà perché sta cercando di creare un nuovo ordine internazionale basato su altri valori, ma rappresenta una minaccia per l'umanità. Molti Paesi intrattengono relazioni con la Cina per interessi economici ma su diritti umani e democrazia non possono essere d'accordo con lei.
Quale sarà il futuro del Tibet nei prossimi dieci anni?
Lo spirito dei tibetani è molto forte. Hanno sopportato l'occupazione cinese per più di 60 anni e questa oppressione non è riuscita a cambiare il loro cuore. La battaglia continuerà. Continueremo a difendere la risoluzione del conflitto sino-tibetano basandoci sul dialogo, cercando l'autonomia contenuta nella costituzione della Repubblica popolare cinese. Abbiamo bisogno di una vera autonomia, non di una nominale. Dobbiamo stoppare il processo di distruzione culturale e di identità. Crediamo che il conflitto sino-tibetano possa essere risolto solo attraverso il dialogo, attraverso le negoziazioni e attraverso approcci non violenti.
Sempre più attori parlano di "aggressione" della Cina contro il Tibet. Perché questo cambiamento linguistico?
Da anni la Cina ha cambiato la narrativa sulla storia del Tibet, alludendo al fatto che il Tibet sia parte della Cina. Questa narrativa è così forte che la comunità internazionale la considera un fatto. Se però è un fatto, allora per la Cina non c'è necessità di sedersi ad un tavolo per negoziare. Storicamente il Tibet non è stato invaso dalla Cina ma a causa dell'attuale situazione noi stiamo cercando una soluzione win-win. Se non è un'aggressione, allora, non c'è un obbligo della comunità internazionale di avere un ruolo nella risoluzione del conflitto sino-tibetano.
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