Al Ula - «La Dakar è un sogno. Lo è sempre stato, anche se non lo avevamo pianificato così». È un ragazzone Gioele Meoni, 28 anni compiuti e un nome che al bivacco fa battere il cuore tutti, senza distinzione di nazionalità. Nel nome del padre, vincitore di due Dakar (2001-2002) e l`italiano che regalò a KTM la prima vittoria dopo sette anni di presenza sui rally. Successo che decretò l`inizio di un dominio durato 18 anni. Così, a distanza di 18 anni dalla promessa di correre un giorno insieme la Dakar, Gioele si è presentato al bivacco per il debutto assoluto sulla regina dei rally raid. Un ragazzone robusto, riccioli biondi, occhi chiari e un sorriso generoso che ricorda tanto il padre. Lo stesso modo di guidare. Persino la moto è la stessa, una Ktm, identici i colori (argento e arancio), come la divisa arancione e blu con tanti sponsor del babbo che hanno seguito Gioele in questa impresa.
Che emozione ha provato ad entrare al bivacco la prima volta da pilota?
«È stata un`emozione fortissima. Sei catapultato in un mondo parallelo dove tutto è nuovo. Il bivacco è un villaggio enorme che richiede un po` di ambientamento, ma presto diventa una grande famiglia. Per me è un sogno che si avvera. Non è esattamente come lo avevamo pensato quando avevo dieci anni con papà. Lui non sarà con me, ma da lassù sono certo che mi seguirà e mi aiuterà. A distanza di 18 anni ho deciso di fare tanti sacrifici e di presentarmi al via. Varcare la porta del bivacco da pilota mi ha fatto venire la pelle d`oca».
È stato più un sforzo emotivo o economico?
«Bussando alla porta dei suoi sponsor mi sono reso conto di quanto aveva seminato di bello. Tanti hanno creduto in me per cui sono contento. I sacrifici sono più a livello familiare. Questa gara richiede dedizione assoluta e tanto allenamento perché devi arrivare preparato. E meglio soffrire a casa che qui per cui mia mamma Elena mi ha seguito tantissimo».
Debutta nella classe Malle moto, senza assistenza, la categoria più dura. È una scelta tosta
«Questa classe rappresenta lo spirito delle origini. È quanto ricorda maggiormente gli anni in cui si correva in Africa. Con papà parlavamo di fare la corsa senza velleità di classifica nella malle moto, perché l`essenza della gara è sfidare da soli il deserto, le intemperie e le fatiche. È un`incognita più grande perché rischi di non arrivare, ma se finisci la soddisfazione è enorme. Avevamo detto di fare questo viaggio insieme ai miei 18 anni ma non è stato possibile. È bello farlo qui in Arabia. I paesaggi dove siamo sono magici. Questo deserto ricorda tantissimo la Mauritania e il Sud del Marocco».
Seduto accanto a Peterhansel, Carlos Sainz e Nasser Al-Attiyah entra di diritto nel mondo dei grandi.
«Io non ho meriti, ma mio padre ha lasciato una traccia e tutti, dagli organizzatori, ai piloti agli ex-piloti si ricordano di lui. Per me è un grande onore sentire parole di affetto da persone che non mi conoscevano, ma diventano presto familiari».
Un consiglio che ha ricevuto?
«Ho avuto la fortuna di essermi allenato con tanti grandi, come Cyril Despres che mi ha invitato ad Andorra. Mi ha detto di chiedermi quando sono in moto se sono lucido, se sono stanco e di rispondermi in modo secco, senza mentirmi. Giò Sala invece mi ha detto di tenere duro perché questa corsa è brutale.
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