Un muro immateriale dopo quello di mattoni

Trent'anni dopo la caduta del comunismo l'Europa dell'Est si sente separata dall'Ue

Un muro immateriale dopo quello di mattoni

Ritorno al caffè Europa, di Slavenka Drakulic (Keller editore, pagg. 316, euro 18,50, traduzione di Giulia Marich), è per certi versi il seguito di un suo libro scritto una trentina d'anni fa, all'indomani cioè della caduta del Muro di Berlino e della fine del comunismo nell'Est Europa e nell'Urss. Giornalista jugoslava, Drakulic in quel suo primo Caffè Europa faceva una ricognizione delle speranze che da quel crollo si innalzavano, e del cambiamento epocale che ne era derivato, senza però nascondersi le difficoltà e spesso le cecità che alle une e all'altro si accompagnavano. Il libro ora pubblicato è dunque una sorta di bilancio, in forma di reportage, e il sottotitolo, Come sopravvivere al post-comunismo, ne indica il filo conduttore, nel senso che se il comunismo non c'è più, non c'è però nemmeno la liberal-democrazia che ne avrebbe dovuto prendere il posto: del mondo di ieri restano i residui, ma il mondo nuovo è un surrogato di ciò che sarebbe dovuto essere...

Un'immagine plastica di questa, come dire, terra di mezzo, è racchiusa nella definizione coniata da un politico bulgaro: «Apartheid alimentare», vale a dire la logica del doppio standard qualitativo a lungo egemone nell'Unione europea. Per dirla in breve, dalle bibite ai detersivi, il nome era identico, ma la qualità inferiore! Drakulic ricorda come inizialmente, di fronte alla costatazione che i sapori, per restare nel campo del gusto, fossero diversi, nel senso di peggiori, avesse preferito negare il problema: «Ammettere che eravamo consumatori di seconda classe mi avrebbe portato dritta nella direzione del romanzo La fattoria degli animali, di George Orwell, che descrive una società in cui tutti i membri sono uguali; ma alcuni sono più uguali degli altri. Avrei perso fiducia nell'Unione, e forse anche nell'economia del libero mercato». Una serie di indagini e di verifiche, fra il 2013 e il 2017, ha però dimostrato che proprio di questo si trattava, e nel 2018, finalmente, la Commissione europea ha annunciato la proibizione del cosiddetto «doppio standard» di qualità alimentare, ma ormai il danno era stato fatto e l'idea di essere stati per anni «il bidone della spazzatura d'Europa» è rimasta dentro la testa dei cittadini dell'Est, con relativa perdita di fiducia non solo verso i produttori, ma anche verso il concetto stesso di comunità europea.

Naturalmente, osserva Drakulic, questo non significa che di fronte a un Ovest dominato dalla logica del profitto ci sia un Est virtuoso e rispettoso delle regole. Nell'import come nell'export, anche l'Est Europa produce e vende truffando: «Bugie, inganni, false dichiarazioni ecc. sembrano essere un procedimento piuttosto standard nell'industria alimentare dell'Est Europa, anche se scoperte solo di tanto in tanto e per caso». Vale la pena osservare che mentre nel primo caso, Ovest versus Est, si tratta comunque di un procedimento legale, nel senso che gli ingredienti sono dichiarati, meno pesce, meno burro, meno succo eccetera, a fronte di un'identica confezione, nel caso Est versus Ovest siamo di fronte a una contraffazione pura e semplice, in linea cioè con un capitalismo meno sofisticato, agli albori, povero, in sintesi, e quindi più brutale.

È un dato di fatto, osserva Drakulic, che l'Europa orientale scambiò la realtà della caduta del Muro con le proprie fantasie... «Un'innocente ingenuità», scrive, nel senso che «non sapevamo cosa aspettarci, ma sapevamo cosa volevamo: luci e lustrini». La democrazia «era una nozione vaga e distante, una teoria impossibile da mettere in pratica. I diritti umani ancor di più (...). Non avevamo esperienza del nuovo mondo che ci si apriva; avevamo solo sogni fatti di immagini alla tv (...). Non avevamo previsto i profondi cambiamenti in atto, incluso il fatto che potessero essere di due tipi: progressisti, moderni, liberali, tolleranti - così come l'opposto (...). Era più facile credere nella nuova realtà senza farsi domande, sposare il lusso più della democrazia, l'avidità più dei diritti umani. Ma le nostre fantasie sull'Europa e tutto ciò che significava non durarono a lungo».

La fine del comunismo scoperchiò insomma il vuoto che c'era sotto. Era fallito non solo un sistema economico, ma i valori, il tipo di società che gli era stato costruito intorno. Il fatto che fosse venuto giù tutto così all'improvviso, «come un maglione di lana; tiri un filo e finisce per disfarsi completamente», aggiungeva al danno la beffa. «Noi dell'Est siamo pessimi a guardarci indietro e imparare dalla storia» osserva Drakulic, ma il discorso è più complesso. Tutta l'Europa orientale aveva vissuto nella prima metà del Novecento la fine di un impero, quello austroungarico, l'affermarsi di nazionalismi più o meno artefatti, regimi autoritari, macedonie etniche. Il comunismo ci mise sopra un coperchio, ma sotto c'era una pentola a pressione... Quando il coperchio saltò le uniche realtà di fatto disponibili erano il sentimento religioso, conculcato, ma tenace, e un'identità nazionale, spuria, ma che sottotraccia era restata presente, un misto di mitologie, frustrazioni, richiami a glorie lontane. «Persino durante il comunismo, per quanto repressa, l'identità nazionale veniva conservata nella lingua e nella cultura». Dopo il 1989, l'una e l'altra «arrivarono presto a dominare il discorso pubblico - con sorpresa della popolazione e dei politici in Occidente, dove il nazionalismo (così credevano allora!) apparteneva al passato e la religione era considerata un atto puramente privato. All'inizio sembrò loro che gli europei dell'Est venissero non solo da un luogo diverso, ma anche da un altro tempo. Ma questo non fu l'unico fraintendimento».

L'altro fraintendimento era di natura psicologica: il mezzo secolo di comunismo aveva creato una visione del mondo, «un particolare tipo di mentalità, e mentre un regime politico può essere cambiato dal giorno alla notte, la mentalità no». Uno dei lasciti peggiori di questa visione del mondo è una sorta di statalismo mentale e privato, l'iscrizione al partito e i contatti con l'élite come «metodi di sopravvivenza e la principale valuta di corruzione». Naturalmente, anche in Occidente c'è corruzione, ma, scrive Drakulic, «c'è differenza fra casi isolati e corruzione sistematica alla base del funzionamento delle società dell'Est».

C'è insomma una vernice democratica, ma il rapporto con il potere politico è rimasto identico. L'insoddisfazione verso l'Europa ha fatto il resto. «Avevamo costruito un meccanismo psicologico di difesa dell'identità collettiva basato su nazione e religione. Non c'era molto altro con cui potessimo affrontare la nuova situazione; nell'idea di identità nazionale si riassumevano tutte le amarezze verso la Ue, la frustrazione derivante dalla nostra posizione nell'Unione, la paura della globalizzazione, la paura degli immigrati che apparivano come nuove vittime bisognose, pronte a prendere il nostro posto».

Un allargamento europeo troppo frettoloso, l'incapacità di capire che un'unica velocità fra economie e politiche così diverse fosse una scelta pericolosa più che una scelta ponderata, fanno parte degli errori con cui l'Europa occidentale ha affrontato l'Europa orientale. L'idea che quest'ultima fosse un semplice vagone che andava dietro la locomotiva a guida tedesca è stato però l'errore fatale, come dimostrato da Angela Merkel rispetto proprio al problema immigrazione.

«Come è potuto accadere - si chiede Drakulic - che questa leader razionale, prudente, appassionata e competente abbia preso una decisione che ha cambiato non solo la sua carriera politica, ma anche il clima politico in Ue? Nel 2015 Merkel ha aperto le frontiere della Germania e, a tutti gli effetti, di tutta la Ue all'improvviso afflusso di rifugiati extracomunitari». Si trattava di «una decisione unilaterale, senza consultarsi con gli altri leaders europei, dimostrando quanto potesse essere arrogante». Un errore, il cui rimedio si è però dimostrato addirittura peggiore, perché la successiva inversione di rotta, con tanto di accordo economico con la Turchia, ha dimostrato l'incapacità dell'Europa «ad avere un piano comune su come fermare l'inondazione; cosa fare con chi era già arrivato».

La resistenza dell'Est nei confronti dell'immigrazione ha radici che l'Ovest fatica a capire. Perché, si chiede quest'ultimo, non mostra «la stessa solidarietà che aveva ricevuto dall'Occidente dopo la caduta del comunismo nel 1989?». La risposta che dà Drakulic è chiara nella sua semplicità: «Il fatto è che gli europei dell'Est vedono sé stessi come le più grandi vittime - che sia per la vita sotto il comunismo o per l'occupazione sotto gli Ottomani e l'impero asburgico ancora prima. È vero, questi Paesi hanno sofferto occupazioni, pulizie etniche, reinsediamenti di minoranze, grandi alienazioni di territorio. Il risultato finale è il desiderio di avere uno Stato nazionale indipendente e una popolazione etnicamente il più omogenea possibile». L'estremo paradosso di tutto ciò è che il continuo sottolineare la comune identità europea, il volersi e doversi riconoscere in una storia continentale plurisecolare, il continuo rifarsi alle radici e alla memoria storica stride sinistramente con l'idea di accoglienza, tanto più se retoricamente intesa e senza una politica che la renda praticabile.

Il risultato, osserva sconsolata Drakulic, è che questo «europeismo, come identità in divenire, ha acquistato un nuovo significato: costruire muri interni e esterni, fisici e psicologici contro gli immigrati. È una profezia che si autoavvera: la paura degli immigrati minaccia di distruggere proprio il tessuto sociale e politico, la cultura, le tradizioni e lo stile di vita che gli europei vorrebbero proteggere».

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