Né genio né mercato Il mondo è schiavo della noia degli editor

di Luca Doninelli
La replica alle parole di Veneziani viene prima delle sue stesse parole, ed è una replica prestampata: semplice, evidente e sbagliata (e anche non dovuta). Li sento già che confabulano in corridoio. Figuriamoci, dicono. I capolavori non sarebbero più possibili «perché non abbiamo più un passato da venerare e un futuro da aspettare», perché «abbiamo perduto il senso verticale della grandezza», perché «ci mancano le virtuose disperazioni». Ma tu guarda. Paroloni, dicono: nati dall’invidia e dalla frustrazione di chi non ce l’ha fatta e incolpa il mondo del proprio fallimento. Conosciamo già questa risposta. Ma è una risposta non dovuta, data da chi dovrebbe tacere, perché non rappresenta nessuna controparte. Chi è infatti la controparte? Mondadori? Einaudi? Rcs? Un meccanismo di mercato, forse? Miei cari, dirà qualche manager culturale, con le vostre chiacchiere non si vende, mentre io devo pensare al fatturato. Del resto anche gli scrittori devono pensare alla pensione, al dopopranzo.
Se non esiste più il senso dell’assoluto, di che diavolo parliamo? Purtroppo, chi veramente potrebbe rispondere a Veneziani e alle sue sacrosante considerazioni non parlerà, perché chi parla sono gli impiegati, quelli che non sanno. L’assoluto cos’è, per loro? È come il motore a ioni di un disco volante: fantascienza. Non hanno provato a dare un senso a questa parola e allora ridono di chi ancora ci crede. Ma sono soldatini senza importanza. Quelli che contano sono coloro che sanno benissimo che cosa siano l’assoluto, il senso verticale della grandezza e le virtuose disperazioni, e hanno deliberatamente gettato tutto questo nel cestino della carta straccia. Ci sono alcune persone che comandano, alcuni galleristi che possono decidere che una caffettiera è più bella della Cappella Sistina, alcuni padroni del pensiero che hanno rinnegato i loro padri e adesso sono più ricchi di loro. Questi qui saprebbero cosa rispondere a Veneziani, ma so già che non lo faranno. Che gl’importa?
Non siete stati voi editori ed editors a compiere il gesto decisivo: voi che pensate di sapere come si fa un libro di successo... Voi non avete nessuna voce in capitolo, qui. Perché se a uno di voi, il più bravo, lo stratega di mercato più geniale, il manager culturale più lungimirante - bene, se a questo signore nascesse in testa il ghiribizzo di un vero pensiero, di una posizione radicalmente personale sull’arte e sul mondo, potete giurare che in capo a pochissimo tempo si ritroverebbe, e senza dover subire ingiustizia da nessuno, nella schiera dei nemici, nel novero dei depressi, dei frustrati. Come ha ragione Veneziani! Da sottoscrivere riga per riga, soprattutto in quei passaggi scomodi anche per chi li scrive e per chi, come me, li condivide. Perché è vero che tra un genio incompreso e un incompreso che si illude di essere un genio c’è poca differenza...
Non che il mercato non abbia un suo pensiero: è il pensiero anonimo, sempre uguale, adottato da tanti scrittori e artisti (e ce n’è di bravissimi, non sta qui il punto) ma non prodotto da loro: è il pensiero connaturato al capitalismo tecno-nichilista. Per chi, genio o non genio, ha un pensiero originale da difendere, il destino descritto da Veneziani è sicuro: curare la genialità come una malattia per «farsi accettare» dal proprio tempo. In realtà le cose sono sempre andate così, più o meno. Ma non sempre sono diventate sistema, e oggi lo sono. Mi permetto però di aggiungere due considerazioni. Innazitutto, non tutti - neppure oggi - pensano che passato e futuro non esistano più. La fragilità delle cose umane ci si è presentata, in questi ultimi anni, sotto diverse forme, e qualcuno che ci sta pensando c’è. L’altra considerazione riguarda il presente. È difficile scrivere capolavori in un tempo nel quale la traiettoria reale di un destino umano è diventata impalpabile. Una persona che perde tutto per un terremoto o per una guerra ha compiuto una traiettoria che gli permette di comprendere per intero il percorso delle aspettative umane.

Ma chi vive tra chiacchiera, pranzo, un po’ di flanella, qualche esibizione, qualche polemicuccia e sta su tre o quattro libri-paga, ditemi: che ne sa, quello, del destino? E magari è perfino bravo, intelligente. Ma non sa, non capisce, che gli è stato fatto del male, e allora si contenta. Forse - addirittura - gode.

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