Sali (o torna indietro): elogio della vetta

Sali (o torna indietro): elogio della vetta
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La vedi già dall’inizio. È lì che ti aspetta. Immobile. Devi essere tu a raggiungere la vetta. Senza pensarci, come diceva Nietzsche, ma solo camminando. Anzi: è proprio quando alzi lo sguardo che - vedendola così lontana, così alta, così massiccia - vorresti cedere. È troppo. Troppo lontana. Troppo alta. Troppo massiccia. Ti chiedi chi te lo ha fatto fare di svegliarti all’alba per andare a camminare e, sotto sotto, inizi a dirti che forse era meglio stare a letto a dormire. La fatica è pesante, l’obiettivo è lontano. Meglio lasciar perdere. O forse no. Perché la cima è la metafora della vita. In un mondo che, per dirla con Hans Sedlmayr, ha perso il suo centro, sono forse quei pochi metri quadrati di rocce, ghiaccio e terra ad assumere un significato nuovo. Quello dell’obiettivo. Del centro che abbiamo perduto e che, invece, può aiutarci a riscoprire chi siamo.

Non a caso, sempre più persone oggi vanno in montagna. Alcuni sono incredibili sprovveduti che non hanno rispetto del luogo in cui si trovano; altri, invece, si avvicinano timidamente ad essa, come è giusto che sia. Pochi, infine, ci creano quel legame assiduo e costante tipico degli amanti. Tutti però sono attratti dalla cima. Dal riuscire a portare a termine il compito che hanno scelto.

Non sempre però la vetta è raggiungibile. A volte le condizioni meteo o la stanchezza lo proibiscono.

E tu non puoi far altro che fermarti, guardarla ancora una volta e tornare sui tuoi passi. Perché la montagna, proprio come la vita, non perdona. Non ammette scorciatoie. E, a volte, ti gira le spalle. Ma potrai sempre provare a tornare alla vetta. Al tuo obiettivo. Al tuo centro.

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