Nel regno dei ciechi si salva Julianne Moore

In «Blindness», ispirato a un libro di Saramago, l’umanità è vittima di un’epidemia

da Cannes

Nel regno dei ciechi, re non è l’ex orbo (Danny Glover): è regina la moglie ben vedente (Julianne Moore) di un oculista (Mark Ruffalo) piombato nel biancore - più che nell’oscurità - dell’indefinita malattia che ha colpito l’umanità. Luogo del primo contagio? Una Fiat bloccata nel traffico! Qualcuno a Torino avrà letto la prima pagina della sceneggiatura prima di finanziare questo Blindness («Cecità») di Fernando Meirelles, film in concorso che ieri ha aperto il XLI Festival di Cannes?
Ispirato a un romanzo di José Saramago, come I figli degli uomini di Alfonso Cuaròn (2006) era ispirato a un romanzo di P.D. James, Blindness constata - come sottolinea con me lo stesso Meirelles - che «la civiltà pare solida, sofisticata, mentre è fragile; per insidiarla, basta la Sars, lo tsunami, l’uragano Katryna, il terremoto che ha colpito la Cina. A quel punto si torna primitivi».
Per convincere Saramago a cedere i diritti, Meirelles e lo sceneggiatore-attore Don McKellar (il secondo dei contagiati) hanno dovuto insistere a lungo. «Quando ci siamo riusciti, ho pensato - aggiunge Meirelles - che di questa vicenda cupa dovevo fare un film di una luce accecante».
Regista di City of God e The Constant Gardener, Meirelles lascia così le favelas del primo e il Kenya-cavia del secondo per girare in una città dall’aria prospera: le strade sono di San Paolo e Montevideo, il lazzaretto è una prigione di Guelph, nell’Ontario. Resta incerto il periodo abbracciato dal film. I primi contagiati vengono isolati, ma il morbo dilaga ugualmente, finché la società civile si dissolve. Alla fine si vedono solo non vedenti nelle strade: barcollano come zombi, in una feroce ricerca di cibo nei supermercati. Ciò farebbe pensare a un lasso di almeno un mese, ma a nessuno degli attori e delle comparse crescono barba e capelli in proporzione. Come possono radersi in quelle condizioni?
Il personaggio della Moore è il principale: prima casalinga, poi volontaria nel seguire il marito nell’isolamento. In questa situazione di degrado - non ci sono infermieri né inservienti - l’opportunista - ma pur sempre cieco - personaggio di Gael Garcia Bernal s’impadronisce di una camerata. Nessuno s’oppone, perché lui ha una pistola. Ma un cieco con pistola non è tanto temibile. Comunque Blindness «tiene» per un’ora e mezzo (qualità notevole). Peccato che si trascini fino a due ore, inanellando vari finali consolatori.
Un film è solo un film, ma da un film ambizioso, per giunta presentato a Cannes, si potrebbe chiedere coerenza. Invece, da questo drappello di minorati, incapaci di rimediare alla minorazione, si ottengono solo aneddoti hemingwayani, come quello dell’oculista: politicamente corretto, perde la (stima della) moglie perché non si è battuto per lei. La quale, anche per punirlo, si fa violentare con le altre donne, però cieche, del lazzaretto. Ma allora perché poi sgozza il violentatore? Lo chiedo allo sceneggiatore McKellar. «Ne ho parlato a Saramago. La sua risposta è che solo allora lei coglie la sua responsabilità.

Prima vede solo per il marito, poi per il suo dormitorio, infine per l’umanità».
Insomma, politicamente corretta quanto il marito, lei si sente legittimata a uccidere perché è personale il torto che ha subito. Come notava Carl Schmitt, «chi dice umanità, vuole ingannarti».

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