Nella selva oscura di Milano

Vengo meno a una regola di buona educazione (già trasgredita in passato), quella cioè per cui non sta bene che uno scrittore italiano vivente scriva di un altro scrittore italiano vivente. Se lo faccio è per parlare, da semplice lettore appassionato, di un libro importante appena uscito presso Einaudi: Milano è una selva oscura di Laura Pariani (pagg. 180, euro 19).
Il romanzo, o come lo si vuol chiamare, racconta le stagioni di un barbone milanese nell’anno 1969, con i suoi incontri, il suo vagabondaggio per Milano e il suo dolore, che è come un pedale, ossia un sottofondo continuo, che accompagna tutte le parole e tutte le immagini del libro. Diviso in quattro sezioni secondo le stagioni, appunto, a imitazione del capolavoro vivaldiano cui la scrittrice non manca di rendere omaggio in appendice al libro, Milano è una selva oscura presenta, per ogni sezione, una struttura tripartita, come nella forma-sonata, con tanto di titoli presi dalla musica: allegro non molto, largo, adagio, e così via.
Parto da queste notazioni perché ci sono libri che rivelano la loro natura prima nella forma che nel contenuto. Del resto, nel contenuto l’autrice sceglie di far prevalere ciò che di norma viene nascosto, vale a dire l’emblema: gioca, insomma, a carte scoperte. C’è un protagonista di nome Dante, di professione barbone; c’è una selva oscura, la Milano del titolo; c’è tutto un passato di persona colta, letteratissima, che si perde in un presente infame. E, soprattutto, c’è la lingua, un sontuoso pastiche con prevalenza lombarda, che nonostante le facili somiglianze esteriori io vedo apparentata più a quella del Manzoni che a quella di Gadda o di Testori. È l’inquietudine a essere manzoniana più che gaddiana. È il genere di sussulto da cui le parole nascono.
La prima impressione, e guai a soffermarcisi troppo, è di un libro artificiale. Ed è vero, qui l’artificio è voluto ed esibito, come nel barocco. Ma chi l’ha detto che l’artificiosità è sbagliata? Qui è giustissima. Come fu giusta la scelta - non meno artificiosa - del Manzoni, che tutto fece fuorché un romanzo «spontaneo», men che meno «naturalista». E come Manzoni scelse il suo complesso artificio perché potesse erompere il grido non soltanto suo, ma della storia intera, così Laura Pariani sceglie uno degli anni più emblematici, quel 1969 che dalle manifestazioni studentesche o sindacali (qui presenti a stralci, come pezzi di manifesto strappato) condurrà fino all’orrore di Piazza Fontana, e un barbone di nome Dante in perenne contatto con la perduta gente, per raccontarci la deriva del nostro mondo, delle sue speranze e, non da ultimo, della letteratura.
Per fare questo ci vuole una lingua molto elaborata, complessa ma pietrosa, niente a che vedere con l’ossessione gaddiana della nascita o lo stravaccamento teatrale di Testori. Qui la lingua è tutta dritta, statuaria pur nella variabilità dei codici perfino all’interno della stessa frase. Perché si tratta di dire quello che la letteratura, quello che il sistema della letteratura non dice più. Si tratta di raccontare una solitudine, una lontananza da tutto, un rifiuto dei riflettori, una antispettacolarità. Ma per farlo ci vuole uno spettacolo che sia però ob-scenus, contrario alla scena, e perciò osceno. Osceno non come una fellatio praticata da una bellissima ventitreenne, ma come le mutande di un barbone, il pus delle sue ferite, la sua carne marcia.
Laura Pariani è persuasa, come lo sono io, che la letteratura vada trovata lì. Questo è l’aut-aut di Milano è una selva oscura. Occorre decidersi: o con lo spettacolificio infinito o con la solitudine, o a far la fila per salire sulla giostra o a chiacchierare con questo Dante qui, davanti a un fuoco acceso in un bidone.
E poi, per finire, com’è interessante la Milano di questo libro! Dura ma con dentro tutta la sua poesia. Con un senso quasi perfetto della scelta dei particolari (memorabili il negozio dove si riparano bambole - forse omaggio al dimenticato Antonio Pizzuto e al suo capolavoro - e la descrizione della salumeria per sciùr), perché Milano si rivela sempre nei particolari.


Un libro importante, politico, duro, anarchico, un giudizio netto sulla letteratura che si scrive oggi in Italia (e non solo). Che nella durezza non fa mancare il suo amore a una città che spesso fa di tutto per non farsi amare.

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