Dal New York Times ombre su Giuliani: «È davvero onesto?»

Il quotidiano: «Ci sono troppe figure ambigue nella società fondata dall’ex sindaco». E nei sondaggi perde terreno tra i repubblicani

da Washington

La campagna è fatta a scale: c’è chi scende e c’è chi sale. A scendere piuttosto in fretta è, fra gli altri, Rudy Giuliani. A salire altrettanto rapidamente è Mike Huckabee. Quest’ultimo non è ancora molto noto dall’altra parte dell’oceano e anche per questo tentiamo, qui accanto, di presentarlo. Giuliani lo conosciamo tutti da tanto tempo e quindi non c’è che da cercar di raccontare che cosa gli sta succedendo e di spiegare, se è possibile, il perché. Naturalmente partendo dai sondaggi: all’uomo fino all’altro giorno ultrafavorito tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca ne stanno capitando di tutte da un paio di settimane: errori strategici, cattiva salute, ombre di scandali. E così il suo margine sui concorrenti di partito nei sondaggi su scala nazionale si assottiglia e nel terreno delle due prime prove, entrambe imminenti (martedì prossimo l’Iowa, cinque giorni dopo il New Hampshire), egli è decisamente indietro: al terzo posto in New Hampshire, dietro Romney e McCain, ancora più indietro nell’Iowa, cui Giuliani ha praticamente rinunciato.
Se ne stava andando altrove quando ha avuto il malore in aereo che lo ha indotto a cambiare rotta e ha resuscitato le speculazioni su un possibile «ritorno» del cancro da cui egli è guarito anni fa. Il bollettino medico dice tutto bene, ma è un’incertezza in più, quanto mai scomoda in un momento come questo, assommata com’è a una campagna elettorale condotta senza entusiasmo e criticata dai suoi stessi consiglieri, che parlano di «passi falsi» e che ha indotto un funzionario del Partito repubblicano a chiedersi se Giuliani «abbia davvero la volontà di diventare presidente».
Lo slogan iniziale della sua campagna, fondata soprattutto sui suoi grandi successi come sindaco di New York, era un trinomio: «Collaudato. Pronto. Via!». Il motore di Rudy, adesso, sembra perdere colpi, in marcato contrasto con la sua immagine politica e umana che è quella del «dinamismo» e del «decisionismo». Gran parte dei mass media già non lo vedevano con simpatia e ora moltiplicano attacchi, rivelazioni, denunce. In prima fila il New York Times, ingrato foglio di casa, che peraltro ha cominciato ieri a sparare a zero anche contro l’altro forte candidato newyorkese, Hillary Clinton, che continua a scivolare nei sondaggi, uno dei quali poche ore fa l’ha data per la prima volta perdente non solo nei confronti di Giuliani, ma anche se confrontata con il mormone Romney.
Hillary e Rudy sono attaccati entrambi in quello che dovrebbe essere il loro punto forte. Lei si vanta soprattutto della sua esperienza (maturata come first lady, ma anche come senatore). «Otto anni in prima fila nella storia», è la sua frase preferita. E adesso le rinfacciano di non averne poi tanta, di essere venuta in prima fila su temi in gran parte secondari, di avere ignorato i principali: non curandosi, a quanto pare, di leggere le informazioni sulla lotta al terrorismo e sulle guerre in Irak e in Afghanistan, particolarmente durante la crisi del 1998 che avrebbe dovuto suonare l’allarme. Ma in quell’epoca, scrive il New York Times, lei e il presidente Bill quasi non si parlavano, a causa dello scandalo di Monica Lewinsky.
Il tema principale di Giuliani è invece l’«onestà». E in quel campo si moltiplicano le insinuazioni. Non tanto sul suo comportamento come primo cittadino della metropoli, quanto su quello che sarebbe accaduto dopo e sulle compagnie di cui Giuliani si è circondato spesso incautamente. Sempre il perfido New York Times riassume alcuni degli elementi che intorbidano il dibattito e la campagna elettorale. Alla scadenza del suo mandato Giuliani era un uomo di modesti mezzi, con un capitale di appena un milione e mezzo di dollari. Rimasto «disoccupato», si dedicò - come quasi tutti i politici importanti in America e non solo in America - a tradurre la sua fama in ricchezza: fondò una società di consulenze legali, la «Giuliani Partners». I partner ci misero i capitali, lui il nome e l’aureola di «incorruttibile». I clienti si moltiplicarono, in sei anni la ditta avrebbe guadagnato più di 200 milioni di dollari.
Ufficialmente non si sa chi siano, perché la «Giuliani Partners» si richiama al loro diritto alla privacy. Le voci, ciò nonostante, si moltiplicano, e parlano, fra l’altro, di un certo Hank Hasher, con un passato di contrabbandiere di cocaina dalle Bahamas e un presente di fabbricante di software specializzati nella sicurezza. Un altro è collegato a un’organizzazione criminale di Hong Kong, con legami addirittura con la Corea del Nord. Un altro ancora a una compagnia petrolifera controllata dal dittatore venezuelano Chavez.

Per completare, l’uomo che più si adoperò per mettere in piedi la società, Bernard Kerik, ex autista di Giuliani da lui nominato capo della polizia di New York e proposto da Bush come capo del ministero della Sicurezza, ha dovuto rinunciare ed è ora sotto inchiesta per sedici reati, passibile di 4 milioni e 800mila euro di multa e 142 anni di galera.

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