Un Nobel alla Turchia della libertà

Il Premio allo scrittore della tolleranza, sempre in bilico tra Oriente e Occidente. «Non lo dice nessuno, lo dico io: i turchi hanno ucciso un milione di armeni e 30mila curdi». Per queste parole fu incriminato e i suoi libri bruciati in piazza...

«Dormivo, ma sapevo che questo sarebbe stato il giorno. Poi è arrivata davvero la telefonata». Orhan Pamuk il Nobel, il turco, lo straniero, l’americano, l’uomo che si è guardato dentro con gli occhi di un armeno. Istanbul non lo perdonerà mai. Ora ancora di più. Ora che ha vinto. «Forse - scrive in quella sorta di autobiografia che è Istanbul - mi sento in colpa per il fatto di non appartenere completamente alla città. Nei giorni di festa, quando tutta la famiglia rideva con l’allegria provocata dai liquori e dalle birre o quando camminavo per strada nei pomeriggi di primavera, l’intuizione che mi cresceva dentro era quella di essere inutile, di non appartenere a nessun luogo, di essere sbagliato e così dovevo allontanarmi da tutti e nascondermi in un angolo. Fuggire dal senso di comunità, dall’atmosfera di fratellanza e solidarietà della città, dallo sguardo di Allah che vede e perdona tutto, per rimanere da solo, e allora provavo un intenso rimorso».
Palazzo Pamuk resiste da più un secolo, una vecchia dimora, elegante, anche se un po’ decaduta. È stretta e alta, saranno tre o quattro piani. Di fronte c’è la moschea di Tesvikye. In basso si vede il palazzo imperiale di Dolmabahce e poi l’imbocco del Bosforo. Istanbul. Ma anche Bisanzio o Costantinopoli. Il quartiere si chiama Nisantasi, la Roccia del Bersaglio. L’ultima volta che lo hai visto è stato cinque anni fa. Ricordi la penombra, la sigaretta sul portacenere, l’odore di caffè, i libri, ovunque. La casa del silenzio, come il titolo di un suo vecchio romanzo. È qui che abita Orhan Pamuk, lo scrittore, quello che ora chiamano il rinnegato. Pamuk il doppio. Quello che non si riconosce. «Fin da bambino ho creduto che vivesse un altro Orhan, del tutto simile a me, un mio gemello, uno completamente uguale a me, in una strada di Istanbul, in un’altra casa simile alla nostra». Pamuk Oriente e Occidente. Pamuk in bianco e nero.
Era cominciato tutto così. Autunno 2005. Pamuk parla con un giornalista svizzero del Tages Anzeiger: «Non lo dice nessuno, lo dico io: i turchi hanno ucciso un milione di armeni e trentamila curdi». I suoi libri bruciano in piazza. Sui giornali ci sono le foto. È un tiro a segno. I nazionalisti lo insultano. Lo insultano anche gli islamici. Il quotidiano popolare Gozcu scrive: «Pamuk ci ha venduto un’altra volta». Hurriyet, il più autorevole foglio turco, dice: «Pamuk è un essere abietto». Un linciaggio che rimbomba copia su copia e la colpa è sempre la stessa: l’infame ha detto la verità, quella che non si può dire, che non esiste, quella che i figli nascondono ai padri e i vecchi non hanno mai avuto l’orgoglio di raccontare, la storia rimossa, come uno stupro in famiglia, come una donna violentata nel giardino di casa. Ma uno così non si può processare. La coscienza non si giudica, si ignora. Ed è quello che la Turchia ha fatto.
Il turco che si è guardato dentro con gli occhi di un armeno. Imperdonabile. Suo nonno veniva da Manisa, città turco-greca, l’antica Magnesia del Silipo, non troppo lontana da Smirne. Tra la pelle olivastra e i capelli bruni di turchi, greci, armeni, azeri e siriaci, l’epidermide, gli occhi e i capelli chiari non potevano passare inosservati. Suo nonno era albino e per questo si guadagnò il soprannome di «Pamuk», il signor «Cotone». Erano i primi decenni del ’900. C’erano da «europeizzare» elettricità, gas, telegrafo, poste, ferrovie. Pamuk, l’albino, si schierò con i Giovani Turchi, vide cadere Abdulhamit II, l’ultimo sultano ottomano, e brindò al trionfo di Mustafa Kemal, detto Ataturk, il modernizzatore. Queste sono le origini della famiglia di Orhan, alta borghesia, imprenditori che hanno costruito la linea ferroviaria turca.
È tutto raccontato nel suo primo romanzo, La casa del silenzio. Anche quello che avviene dopo. La delusione del nonno, costretto in esilio in periferia, in rotta con i nuovi padroni, che hanno sostituito la religione di Allah con quella dello Stato, l’assolutismo della fede con quello della ragione. La Turchia di Maometto e quella di Ataturk segnate dallo stesso male. Uno dei suoi maestri è stato Yashar Kemal, madre curda e padre turco, uno in lista d’attesa a Stoccolma da almeno vent’anni. Ma si può dare un Nobel all’ultimo Omero di un popolo senza terra, disperso e offeso sotto tre bandiere diverse? Pamuk lo ha sostenuto: «È un mio amico. Riconosco i diritti dei curdi. Vorrei che i miei concittadini ne parlassero. Noi vogliamo il silenzio, loro rispondono con le bombe. Sono due modi orrendi di stare al mondo». Questo Nobel, in fondo, è anche un po’ figlio di Kemal.
Il volto di Pamuk nasconde i suoi 54 anni. Una buona parte li ha passati a scappare dai due orizzonti della Turchia, come quel giorno. Era l’11 settembre. Era il giorno delle due torri. Pamuk ricorda un piccola folla in un caffè di Istanbul. Il secondo aereo era appena entrato nel ventre del grattacielo. «Ad un certo punto stavo quasi per alzarmi di scatto e gridare: ho passato tre anni della mia vita a Manhattan! Ma come in quei sogni in cui ci si sente sempre più soli, non ho potuto fare altro che rimanere in silenzio». Istanbul è una malinconia condivisa: «Ormai c’è rumore e cemento ovunque, ma i cambiamenti di superficie non significano nulla. Se la si conosce davvero, ci si rende conto che è la Costantinopoli di sempre». È l’anima che resta divisa a metà, da sempre in bilico tra desiderio e ricordo. E tutte e due rimproverano a Pamuk di averle tradite. Troppo occidentale per i tradizionalisti islamici, troppo legato alla tradizione per i nazionalisti. Troppo poco turco per entrambi. Qualche anno fa sorrise dei sogni europei di Ankara. «Siamo in lista d’attesa».
Le sue storie sono una via di fuga dall’est e dall’ovest, come se i punti cardinali fossero solo una sporca bugia e le due culture una faida antica senza più ragioni. Storie rubate al Mevlud, il poema che narra la nascita del Profeta, e alle liriche del Mesnevi, alla pittura rinascimentale e alla Vita Nova di Dante, a Borges e a Calvino a Kafka e De Lillo. Storie che vale la pena di raccontare solo perché sono storie, senza stare troppo a chiedersi da quale parte arrivino, se lì dove il sole nasce o lì dove tramonta. I suoi romanzi parlano di libri antichi e miniature, di destini in bilico tra Oriente e Occidente, tradizione e modernità. Parlano di città dove gli spiriti della storia s’incrociano e qualche volta si amalgamano, spesso combattono. E parlando, raccontano il senso di questi tempi e di quelli passati, con rifrazioni di voci e personaggi: mosaici, polifonie, dialoghi con il lettore. Ma soprattutto parlano di uomini in fuga da tutto questo.
Pamuk è come il Nero, l’uomo che cerca la verità nelle strade di Istanbul in quell’inverno del 1591. Il Nero che è la voce narrante del Il mio nome è rosso, romanzo sul talento e sulla tecnica, su comunità e individualismo. Romanzo sui colori della verità: quattro miniaturisti alle dipendenze di un Sultano, un predicatore che li accusa di tradire i precetti del Corano, di ritrarre gli esseri viventi così «come li vedono» e non «come li vede Allah», un assassino, una bella donna, due delitti. Un maestro miniaturista che difende i precetti della tradizione e un ambasciatore ottomano a Venezia innamorato della pittura occidentale, a cui il Sultano ha affidato il compito di illustrare un libro con le «nuove tecniche», quelle della prospettiva. Il doppio è l’ossessione di Pamuk. È l’illusione di mettere insieme i due volti della sua terra. È l’Est e l’Ovest che lottano per stare insieme o per non annientarsi. Due volti che stentano a riconoscersi. Accade nella Vita nuova. Accade nel Libro nero. «Credo che ormai sia sterile parlare di Occidente e Oriente. Mi piace la semplicità con cui si mescolano i cibi di McDonald’s con quelli tipici del mio paese, le folle dei concerti rock e gli strumenti etnici, il matrimonio classico e la pornografia».
Nelle strade di Kars, la città di Neve, di tanto in tanto arrivano le note di una vecchia canzone italiana. Le parole parlano di una ragazza, Roberta, un amore andato in fumo. La voce è di Peppino di Capri. «Tre anni fa sono stato a un suo concerto, a Istanbul. Credo che le sue note, il senso di solitudine, si adattino bene all’atmosfera di Neve. Roberta così è diventata la colonna sonora della città di Kars». È una piccola città perduta, al confine con il Kurdistan e l’Armenia. L’inverno di questa storia è rigido con una nevicata che non sembra smettere mai, chiude le strade e isola le vecchie case tra i monti. Un gruppo di ragazze si suicida perché la legge turca le obbliga a lasciare il velo se vogliono entrare a scuola. Ka, il protagonista, è un poeta tornato a casa dopo un lungo esilio a Francoforte, dove ha vissuto di sussidi, letture pubbliche, lunghe giornate in biblioteca. È tornato per capire perché le ragazze muoiono, per rompere il silenzio di queste morti e per cercare un vecchio amore perduto. C’è un gruppo di attori teatrali che porta nelle cittadine di provincia piece ispirate ad Ataturk mescolate a sketch e danza del ventre, c’è un vecchio portiere della nazionale di calcio che racconta di quando prese dieci gol dall’Inghilterra.
Ma Neve è soprattutto la storia di un colpo di stato guidato da un attore che crede di essere Ataturk, di una città isolata dalla tormenta di neve, di uno spettacolo teatrale che finisce in un bagno di sangue, di una repressione feroce che coinvolge insieme integralisti islamici, nazionalisti curdi, vecchi e ormai stanchi oppositori di sinistra del regime autoritario turco. Un golpe e tante morti in nome di Ataturk, dell’Illuminismo e dell’Europa. È la ricostruzione di manoscritti e appunti lasciati dal poeta Ka, ucciso in una strada di Francoforte da estremisti islamici. È la storia di un paese che si sente moderno e per guardare ad Ovest ha calpestato le sue tradizioni, ma che al tempo stesso si sente giudicato e allontanato, disprezzato perché arretrato, incomprensibile.

Un paese dove essere occidentali significa impedire alle ragazze di usare il velo, ma anche usare la voce dell’esercito per tenere a bada i poveri. Un paese dove gli intellettuali dopo ogni golpe si sentivano delle vittime, ma pensavano: almeno il peggio non è avvenuto. E il peggio era il ritorno all’Islam. Questo Paese è la Turchia.

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