La libertà di stampa è un optional. Quanto al sacrosanto diritto di cronaca c’è chi è autorizzato a esercitarlo e chi no. E ancora ieri la casta dei magistrati l’ha ribadito snobbando la quotidiana violazione del segreto istruttorio dei quotidiani proni sul caso Rubye ordinando una perquisizione invasiva (e ritorsiva) al Giornale . In particolare alla redazione romana e a casa della collega Anna Maria Greco, costretta a denudarsi per convincere i carabinieri che sotto la gonna non nascondeva le carte del Csm pubblicate il 27 gennaio sugli «atteggiamenti amorosi» del pm Ilda Boccassini. La vendetta della casta in toga è arrivata puntuale. La procura di Roma - quella che s’è distinta sulla non-inchiesta della casa di Montecarlo - è riuscita nell’impresa di ordinare questo po’ po’ di ispezione a una cronista nemmeno indagata. E c’è riuscita contestando non alla Greco ma a terzi (il consigliere del Csm, Matteo Brigandì, pure lui perquisito) la presunta violazione dell’articolo 323 del codice penale, e cioè l’abuso d’ufficio, reato che a memoria di giornalista non si ricorda esser stato motivo di perquisizione in un quotidiano. C’è riuscita, infine, facendo finta di non sapere che l’oggetto della perquisizione durata otto ore era il sequestro di carteggi vecchi di un quarto di secolo, e a tutti gli effetti pubblici, custoditi negli archivi della commissione disciplinare del Csm.
Gli inquirenti capitolini hanno dato disposizione di ficcanasare ovunque a casa della Greco, di sequestrare computer personali (pure a quello del secondogenito Matteo hanno messo i sigilli!) supporti informatici, agende, carte varie. Qualsiasi cosa potesse portare a scoprire chi, come e quando avesse passato la documentazione al Giornale . L’ordine del pm era perentorio, i carabinieri l’hanno portato a termine senza trovare alcunché. Come sempre, del resto.
Niente trovarono, perché niente c’era da trovare, il 7 ottobre scorso con la perquisizione disposta dai pm napoletani Woodcock e Piscitelli per la farsa dell’inesistente dossier dedicato a Emma Marcegaglia: abitazioni e stanze di lavoro del direttore Alessandro Sallusti e del vice Nicola Porro vennero rivoltate dai militari del Noe alla spasmodica ricerca del Santo Graal diffamatorio sulla presidentessa di Confindustria, inconsapevole oggetto di uno scherzo telefonico del numero due del Giornale al troppo realista portavoce della portavoce degli industriali. Il reato contestato? Concorso in violenza privata, laddove l’eventuale concorso di Sallusti era insussistente non essendosi mai evidenziato un suo interessamento (nemmeno al telefono, intercettato) per la signora Marcegaglia.
Sempre i carabinieri, del Ros stavolta, la notte del 3 a 1 dell’Inter al Barcellona tornarono in caserma a mani vuote dopo aver curiosato fino alle tre del mattino in ufficio e in ogni angolo della casa di chi vi scrive e del collega Massimo Malpica, rei d’aver anticipato sul Giornale del 20 aprile l’inchiesta della procura di Roma a carico di Denis Verdini e compagnia P3. Un po’ come ha fatto il bravo Gianni Barbacetto che il 26 ottobre, bruciando la concorrenza, parlò del-l’esistenza di un’inchiesta top secret su una ragazza marocchina, certa Ruby, in stretti rapporti col presidente del Consiglio. Sarà che lavora al Fatto Quotidiano ma Barbacetto, per fortuna, non è stato perquisito.
Chi lavora (solo) per questo quotidiano sa che deve stare attento, molto attento, al telefono. Sa che deve incontrare le fonti di nascosto perché l’obiettivo è quello di sputtanarcele e bruciarcele tutte. Sa che per avere uno straccio di notizia di un’inchiesta è obbligato a sbattersi dieci volte di più dei colleghi da riporto delle procure. Come il nostro Luca Fazzo sa bene (per aver osato pubblicare in cronaca di Milano la storia giudiziaria e videoregistrata di un vigile assenteista) non basta prendere tutte le precauzioni del caso perché si finisce comunque a fare i conti con chi si presenta all’alba alla porta di casa. E che dire di quando siamo stati «sequestrati » un giorno intero dai carabinieri, su ordine della procura di Perugia, a caccia delle carte sullo scandalo Telekom Serbia. Dodici ore bloccati in una stanza, senza poter uscire o telefonare, con dieci militari a caccia di chissà quali segreti nascosti in redazione e altri dieci impegnati a sigillare l’hard disk del computer e fotocopiare ognuna delle quindicimila carte dell’ affaire telefonico che tanto imbarazzava Prodi e Fassino. Il blitz fu così abnorme e immotivato, intimidatorio e minaccioso, che al Giornale arrivò persino la solidarietà del partito marxista-leninista. Ed è tutto dire. Scene in fotocopia le abbiamo vissute in ogni perquisizione, vecchia o nuova che sia: dalle carte dell’inchiesta sul Gruppo Zeta di Donatella Zingone ai verbali su Di Pietro, dal rapporto segreto sul-l’attentato al Papa all’interrogatorio di Squillante fino al furto al caveau di piazzale Clodio. Decine e decine di iniziative mirate sempre e solo a colpire il Giornale e i suoi giornalisti.
Quando si venne a sapere che il sottoscritto era stato pedinato e intercettato in tre anni di indagine per capire chi aveva passato la soffiata sulla latitanza di Licio Gelli, pensavamo d’aver raggiunto il massimo. Non potevamo certo immaginare che un pm donna, per una vicenda che riguarda da vicino un’altra pm donna, arrivasse a umiliare una donna giornalista, spogliata nuda perché così impara.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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