"Ma non chiamatemi scrittore della Shoah"

"Nessun epiteto è più irritante. Certo, ho conosciuto l’'olocausto, ma non posso parlare per sei milioni di persone sterminate"

"Ma non chiamatemi scrittore della Shoah"

La notte precedente l’intervista ho divorato il suo ultimo libro, Storia di una vita (Guanda, pagg. 200, euro 14, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi). Ho spento la luce con il chiarore dell’alba, pervasa da una sensazione di sottile angoscia, ma anche di pienezza. E di speranza. Quella di Aharon Appelfeld è la testimonianza toccante di chi ha attraversato indenne l’inferno del Secolo Breve, nonostante le difficoltà e le incancellabili cicatrici nell’anima; un resoconto terribile e struggente che lascia il segno. Appelfeld è considerato tra i massimi scrittori israeliani, di lui si parla anche come di un possibile Nobel; una persona che esprime forza, sensibilità d’animo e pacatezza, ma anche quel tipico umorismo yiddish che sdrammatizza e scioglie le tensioni sempre in agguato. Ma è soprattutto un uomo di notevole statura morale e intellettuale, essenziale nell’esposizione, nonostante la complessità degli argomenti. Un Grande del nostro secolo, con il quale è un onore parlare.

Nato nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina, quella parte di mondo destinata a spartizioni e a drammatiche lacerazioni territoriali, sopravvisse alla Shoah in cui perse la madre e i nonni. Fu deportato con il padre in un campo di sterminio nazista in Ucraina, dal quale riuscì a fuggire, bambino, abbandonato al destino e a se stesso. Per tre anni vagò nei boschi, in preda a gentaglia e a criminali che lui definisce «la mia seconda scuola», prima di approdare nel ’46 in Palestina, allora sotto mandato britannico. Veterano dell’esercito israeliano, è sposato e ha tre figli.

Decido di rivolgermi a lui in tedesco, la sua lingua materna. Apprendo infatti dal libro che sua madre amava e coltivava questa lingua che in seguito il giovane Aharon avrebbe smarrito per colpa della guerra, quando perse tutto tranne se stesso: terra, casa, famiglia, sogni e certezze. Perfino le parole, un mosaico sorprendente di yiddish, ebraico e ruteno che si parlava soltanto in quelle parti d’Europa. Anche nella sua famiglia di ebrei borghesi, illuminati e assimilati e parte integrante dell’intellighenzia del Vecchio Continente. Convinti purtroppo che Hitler fosse soltanto un fenomeno di passaggio. Nessuno s’immaginava come sarebbe andata.

Guten Abend Herr Appelfeld.

«Guten Abend (sorpreso). Non sapevo che avremmo parlato in tedesco... (Silenzio). Be’, mi fa piacere. (Pausa) Ho così poche occasioni di parlarlo. Faccio fatica a trovare le parole... (Riprende fiato) Quando arrivai in Palestina dovetti fare degli sforzi immani per adottare l’ebraico come nuova lingua. L’ebraico dell’Immigrazione Giovanile e dell’esercito era privo di qualunque legame con il mio passato. Lo sforzo di conservare la mia Muttersprache (lingua madre, ndr) in un ambiente che m’imponeva una lingua diversa fu vano. A quel tempo non ero in grado di unire le parole in frasi. Ero praticamente muto. Balbettavo, le mie erano le grida soffocate di un ragazzino disorientato. Senza lingua tutto è caos, confusione e paura. Ma l’esperienza mi è servita. Ho imparato a osservare e ho capito che è meglio tacere. La Bibbia dice che il Non Detto è più forte di quello che è Detto».

Il tedesco era anche la lingua dei nazisti...

«Sì. La mia Muttersprache era anche la lingua degli assassini di mia madre. Come si poteva tornare a parlare una lingua intrisa di sangue ebraico? Certamente era un dilemma. Questo dramma non m’impedì tuttavia di considerarla prima di tutto la lingua di mia madre e della mia infanzia».

Non pensa che anche oggi si rischi una dispersione delle lingue a favore di un idioma sgangherato e globale?

«Tutte le epoche hanno le loro perdite e i loro errori. Il nostro tempo consente a chiunque di viaggiare e di parlare molte lingue. Con il rischio di perdere le proprie radici. Assistiamo alla nascita di una nuova lingua priva di intimità. Tutto è globalizzato. Il rischio c’è».

Informazioni sempre più veloci e automatismi del pensiero alterano la nostra capacità cognitivo/percettiva. Non pensa che la Memoria, intesa come passato, rischi di finire in un calderone del tutto e niente?

«Se la tecnologia assume il predominio, i sentimenti, i ricordi e l’esistenza stessa si riducono, tutto diventa più piccolo. La tecnologia offre molto ma non coglie il prisma della personalità umana. Come gestire tutto questo, è la grande domanda per il futuro».

Non sembra però pessimista...

«Un uomo che ha vissuto in un ghetto e in un Lager non può permettersi di esserlo. Finita la guerra, avevo 13 anni, pensavo di essere l’unico ebreo sopravvissuto. Non lo ero. Ce n’erano altri come me. Le cose cambiano continuamente. Penso che l’uomo di oggi ritornerà a vivere in modo più semplice nonostante il progresso, più vicino alla natura e alla collettività. Lo vedo soprattutto nei giovani. Quando sono arrivato in Israele era un Paese intriso di ideologia. Si voleva costruire l’Ebreo Nuovo, potente, forte e invincibile. Il passato ebraico doveva essere rimosso. I genitori non raccontavano niente ai loro figli, l’argomento Shoah era tabù. Oggi tutto è cambiato. I ragazzi vogliono sapere e capire, mi scrivono di continuo. Lo vedo come una grande speranza per il futuro. L’uomo senza memoria non è niente. L’arte e la cultura che non siano accompagnate dalla fede e dalla memoria dei padri non ci salverà».

Che cosa ricorda del suo vagare per i boschi?

«Non sono rimasto solo per molto tempo. Ho incontrato diversa gente. Certo, ho trascorso notti immerso nel freddo e nella solitudine. Ho provato i morsi della fame, la paura e lo smarrimento, ma soprattutto la mancanza dei miei genitori. È stata un’esperienza significativa. Come si può dimenticare?».

Lei ha ancora fiducia nell’uomo, dopo ciò che ha passato?

«Certo che ho fiducia. Ci sono state molte persone buone che mi hanno aiutato. Buono è chi ti offre un pezzo di pane se sei affamato; buono è chi non ti picchia e chi ti dà una mano se sei in difficoltà. Io di gente così ne ho incontrata molta e mi ha salvato la vita».

A quale Paese si sente di appartenere?

«Prima di tutto sono ebreo. Secondo, vivo in Israele. Terzo, sono nato in Europa. Dunque sono un ebreo israeliano e poi europeo».

Lei ha conosciuto Agnon, Martin Buber, Gershom Scholem...

«Sono stati i miei maestri, mi hanno influenzato molto. Sono felice di averli incontrati».

E Primo Levi? Si sente, come lui, un sopravvissuto?

«Ero più giovane di lui, la mia esperienza nel Lager e i miei sentimenti erano quelli di un bambino. Quindi è molto diverso rispetto a quello che ha vissuto lui. Purtroppo non l’ho conosciuto, ma so che mi apprezzava, ci siamo anche sentiti. Aveva scritto sul mio libro Badenheim 1939».

Lei non ama essere definito uno scrittore della Shoah.

«Non esiste un epiteto più irritante. Uno scrittore scrive di sensazioni, incontri, persone e ricordi. Certo, la mia infanzia si è svolta nella Shoah, dove ho sofferto e imparato, ma non posso scrivere di sei milioni di persone che sono state sterminate. La generalizzazione, il tema sono una conseguenza secondaria della sua scrittura, non il suo principio. Come faccio a scrivere di loro?».

Che cosa pensa del libro Sopravvivere con il lupi, in cui la sedicente Misha Defonseca racconta di essersi salvata dai nazisti grazie all’adozione da parte di un branco di lupi? (In realtà Misha si chiama Monique, non è ebrea e i suoi genitori non furono perseguitati per motivi razziali, ndr). Mercificazione dell’Olocausto?

«Tutte le catastrofi producono molti bugiardi, questo è chiaro. C’è gente che le usa per costruire carriere, prestigio e soldi. Anche questo fa parte della natura umana».

Lei aprirà a maggio il Salone del Libro di Torino, in cui Israele è l’ospite d’onore. A proposito: che cosa pensa della polemica «scrittori israeliani raus»?

«Mi auguro che sia stata superata. Aufwiedersehen...».

m.gersony@tin.it

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