La notte delle stelle per l’ultimo Proust

Maggio 1922: al Majestic di Parigi grande cena per Diaghilev, con Picasso, Joyce, Stravinsky. Fu una delle ultime uscite pubbliche dell’autore della «Recherche», che morirà sei mesi dopo

Verso metà maggio del 1922, a Parigi, dopo settimane umide e piovose, il tempo era finalmente cambiato. Fu come se fosse scoppiata la primavera, i caffè si rianimarono, la gente all’aperto si godeva il tepore del sole, gli zampilli delle fontane in Place de la Concorde sembravano più festosi e scintillanti. Ma, se attribuissimo al barometro culturale le antenne che meglio percepiscono la realtà complessiva, si potrebbe dire che era uno di quei momenti magici in cui si capiva che il mondo era diventato un altro. In un processo che era iniziato nel breve torno d’anni prima, e quasi a segnale, della guerra tremenda, proseguito poi nei pochi anni successivi alla guerra, si poteva avere la sensazione, in momenti come quello, che tutto fosse stato rivoluzionato, tutto quello su cui noi oggi ancora campiamo o con cui non abbiamo finito di fare i conti, in musica e nelle arti figurative, nella narrativa e in architettura.
Anche se l’evento descritto da Richard Davenport-Hines in A Night at the Majestic (Faber and Faber, pagg. 358, sterline 14,99) è assai circoscritto, esso è certo molto significativo, e quasi un sigillo, di quell’intera stagione culturale. Infatti, la sera del 18 maggio 1922, in una sala riservata del prestigioso Hôtel Majestic, in Avenue Kléber, si svolse quella che potremmo chiamare l’ultima cena del modernismo.
A offrire questo pranzo di gala erano Violet e Sydney Schiff, una coppia cosmopolita di Londra, marito e moglie molto ricchi, molto affiatati, molto appassionati all’arte, e presenti a ogni evento culturale importante. L’occasione era qui di festeggiare la prima di Le Renard di Stravinsky con i Balletti Russi di Diaghilev. Oltre al compositore e all’osannato impresario-creatore del balletto moderno, gli altri invitati d’onore erano Picasso, Joyce e Proust. In realtà, sappiamo da Clive Bell, il cognato di Virginia Woolf, l’unico inglese presente, che i partecipanti erano complessivamente tra i quaranta e i cinquanta, e ciò non deve sorprendere, perché, come sappiamo invece da T.S. Eliot, che a Londra frequentava da amico gli Schiff, la loro bravura era quella di saper mettere insieme le persone più diverse, ed è probabile quindi che fossero stati chiamati a raccolta tutti i grandi talenti, emigrati o francesi, disponibili a Parigi. A noi comunque interessano qui le cinque grandi stelle dell’evento, la cui straordinaria e arbasinesca descrizione, pur occupando l’intero primo capitolo di A Night at the Majestic (prima che, via via, esso diventi inno e apoteosi a Proust morente), non giustificava tuttavia la forzatura promozionale del sottotitolo, Proust and the great modernist dinner party of 1922.
Diaghilev era insieme il principale ospite d’onore e il maestro di cerimonie in quella memorabile serata, assaporava raggiante il plauso generale emanando dalla sua testa imbrillantinata gli effluvi del suo profumo preferito, al fiore di mandorlo. Non c’era, a far vibrare sotto i pantaloni stretti i fasci muscolari delle sue gambe, il grande Nijinsky che, dopo aver contribuito al trionfo di Stravinsky e dei Balletti Russi, nel 1910 con L’oiseau de feu, nell’11 con Pétrouchka, nel ’13 con Le sacre du printemps, aveva ormai abbandonato Diaghilev per altri lidi. C’era però, non meno prodigiosa del fratello, la Nijiska, dalle possenti spalle e dall’identità sessuale non acclarata. Comunque, se questo era il lato festoso dell’occasione, per gli altri nostri eroi non c’era altrettanta esultanza. Proust appariva esangue, sudaticcio, malato, anche se nessuno, allora, si sarebbe aspettato che da lì a sei mesi sarebbe morto, dopo che, sprofondato nel suo letto, sfinito dal lavoro, aveva scritto la parola «Fin» sull’ultima pagina dell’ultimo libro della Recherche.
Ma almeno lui, a quel banchetto, cercava di essere come si deve e, per ingraziarsi Stravinsky e parlar di musica, gli disse quanto gli piacessero gli ultimi quartetti di Beethoven, al che il maestro sbottò acre dicendo che detestava di cuore Beethoven. Pare anche che Proust e Joyce si facessero dei complimenti d’occasione, benché non avessero letto nulla l’uno dell’altro. I vari resoconti su quella serata, riportati da Richard Ellmann sulla sua biografia di Joyce (cui naturalmente, tra altre fonti, attinge l’autore di A Night at the Majestic), sembrano concordare sul fatto che Proust e Joyce preferissero parlare dei loro malanni. «Ho mal di testa ogni giorno, e i miei occhi vanno malissimo» disse Joyce. E Proust ribatteva: «Il mio stomaco, il mio povero stomaco. Cosa devo fare? Mi sta uccidendo. È meglio che io vada via subito». «Lo stesso vale anche per me» disse Joyce, «mi basta trovare qualcuno che mi tenga per braccio». Infatti, era arrivato già mezzo ubriaco, e pare che a un certo punto sia anche crollato sul tavolo cominciando a russare. Peraltro, aveva accettato l’invito malvolentieri, era preoccupato per gli occhi, il giorno dopo doveva andare da uno specialista, il punto interrogativo che era per lui la vita continuava a essere come un chiodo infisso in testa, e poi non aveva un abito da sera.
Anche Picasso non era molto contento di trovarsi lì. E sì che in quel periodo, con nuova vitalità, stava rialzando la cresta. Dopo aver cercato per qualche tempo di appianare i suoi comportamenti e di seguire le convenzioni borghesi, come gli chiedeva insistentemente sua moglie Olga Koklova (l’aveva incontrato a Roma nel ’17 quando ballava nei Balletti Russi sotto Massine, e ora, con la maternità, si era fatta pienotta e un po’ massaia), a un certo punto egli aveva reagito, e appeso nel suo studio un cartello con la scritta: «Je ne suis pas un gentleman». Picasso, dopo la quiete, risorgeva, e, in uno di quei giorni di maggio, il suo amico Cocteau aveva detto di lui: «Picasso ha solo occhi per Picasso. Credo che sia un demonio». A quella cena s’era presentato vestito provocatoriamente alla catalana o alla maniera piratesca, con una bandana sulla fronte. I suoi modi non abbandonarono un certo cipiglio che egli aveva destinato a quella serata, ed è un peccato che nessuno abbia potuto riferire o ricordare cose che avesse detto.
Che disastro. Eppure, chi di noi non farebbe carte false per essersi trovato lì, magari col senno del poi, o con il gusto dissacratorio nel vedere quali distanze pare separino a volte gli uomini, i loro tic, le loro miserie, dalle loro opere? Un’apparenza tanto più forte quando, indulgendo al mito, dimentichiamo la dimensione del quotidiano, e la complessiva, straordinaria unicità dell’individuo. In quella stagione circolavano non pochi individui speciali, e si crearono opere importanti. Si badi alle date. Un paio di mesi prima di quella cena, Sylvia Beach era andata ad accogliere Joyce alla stazione e gli aveva dato in un pacchetto le prime copie dell’Ulisse. Gertrude Stein rimase piccata di aver perso con ciò la sua posizione di anticipatrice dello sperimentalismo. Pound aveva da poco finito di falcidiare e ridurre i versi de La terra desolata di Eliot, che sarebbe uscito a ottobre. Il «grande fabbro», come Eliot lo definì, si trovava pure a Parigi, anche se non a cena al Majestic, forse dava una delle sue lezioni di boxe a Hemingway.

L’asma di Proust peggiorava, ma egli non avrebbe mai accettato di morire prima di finire Il tempo ritrovato. Accadde la notte del 18 novembre, la bottiglietta dell’inchiostro era rovesciata.
Molto lontano da lì, con gli occhi di febbre e il riso di chi ride del baratro, Kafka leggeva a Max Brod brani del Castello.

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