Oggi la letteratura non deve più fingere

Oggi la letteratura non deve più fingere

Lo spunto ci viene da due libri importanti, pubblicati ambedue da Guanda in questo periodo. Uno, annunciatissimo, è Se niente importa del neovegetariano (e ottimo scrittore) Jonathan Safran Foer, l’altro, un po’ meno annunciato, è Una settimana all’aeroporto di Alain De Botton, svizzero.
Si tratta di due degli ormai innumerevoli esempi di un genere letterario relativamente nuovo, che non è narrativa né saggistica né reportage giornalistico. L’hanno chiamata, genericamente, non-fiction, e vanta un repertorio di testi che si possono considerare classici, da Una cosa divertente che non farò mai più o Considera l’aragosta di D. F. Wallace a L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, fino a Come stare soli e Zona disagio di Jonathan Franzen.
Queste opere possono mettere in primo piano la propria autobiografia (come in Eggers o nel Franzen di Zona disagio) oppure tematiche riguardanti la vita della società (il lavoro, i viaggi o l’architettura per De Botton), eventi di cui non parla nessuno (come in Wallace: crociere per anziani miliardari o convention di venditori di granaglie nel Midwest).
C’è chi, addirittura, insegna questo genere letterario all’università, come il sottoscritto: io la chiamo etnografia narrativa e non si rivolge tanto ad aspiranti scrittori quanto a tutti coloro che cercano di rendersi conto di quello che sta succedendo non tanto nel «mondo» (per questo ci sono la tv e i giornali) quanto sotto i loro piedi.
Ci troviamo, infatti, dentro una sorta di terremoto, che sta cambiando il contenuto di molte delle parole più comuni.
Prendiamo il libro di Safran Foer, che è una specie di discesa agli inferi dalla quale usciamo (abbastanza malconci) determinati a non mangiare mai più una bistecca o una polpetta di carne in vita nostra. Sappiamo davvero quello che mangiamo?, si chiede lo scrittore newyorchese. La risposta è un «no» senza appello: quello che accade alla carne prima di materializzarsi nei nostri piatti sotto forma di paillard o fettina o costata è mostruoso, e su questa mostruosità noi - semplicemente - non possiamo esercitare altro controllo che il rifiuto definitivo.
In realtà, questi temi sono già stati toccati altre volte nella letteratura contemporanea. Penso a quel bellissimo romanzo, viziato solo da un finale malriuscito, che è La famiglia Winshaw di Jonathan Coe (1994), dove si racconta per molte pagine di allevamenti di polli, e anche qui vi assicuro che il voltastomaco è assicurato.
Cos’è cambiato nei sedici anni che intercorrono tra le due opere? Questo: che sedici anni fa tutte queste cose potevano ancora finire in un romanzo, ossia in un libro capace di aprire e chiudere il ritratto di un’epoca, fermando l’immagine e immortalandola. Ora non si può più. Sedici anni fa si potevano prendere le distanze dalla cronaca attraverso un processo di oggettivazione simbolica cui davamo il nome di forma romanzesca. Oggi non più.
I polli di Coe erano, insomma, pur sempre dei simboli, i vitelli di Safran Foer (che pure sa scrivere romanzi) no, e perciò non possono più finire in un romanzo, e forse annunciano la fine stessa del genere-romanzo così come lo conosciamo.
Perché tutto questo?
La risposta non è semplice, ma forse un po’ di chiarezza si può fare. Il primo dato è che viviamo tutti in una realtà in mutamento così rapido che la presunzione di farne un ritratto è quantomeno velleitaria. I ritratti si fanno a bocce ferme, e qui di fermo non c’è niente. Dieci anni fa la parola «globalizzazione» richiamava determinati significati, oggi ne richiama altri. Dieci anni fa Milano era una cosa diversa rispetto a oggi. Vent’anni fa Busto Arsizio traeva la propria ricchezza di allora dagli stessi luoghi dove oggi va a spendere la sua ricchezza di oggi. Dietro la riconversione di un’area dismessa c’è il cambiamento complessivo di un’intera città, della sua economia, della sua società, dell’idea stessa di «città».
Tutto questo non può più essere documentato (almeno per oggi) mediante un racconto omnicomprensivo, un grande affresco, una grande foto di gruppo della nostra epoca, quanto piuttosto attraverso «scavi» in sezioni limitate, studi dedicati a pezzi di realtà, senza la pretesa di creare metafore esplicite.
Questo non significa che la letteratura abbia perso la sua capacità di offrire immagini universali, ma solo che la via per ottenere queste immagini sta diventando un’altra. Il libro di De Botton sugli aeroporti ci racconta, con onestà demistificante, l’essenza del «viaggiare» postmoderno, che è ben diversa dalle grandi avventure del passato nelle quali vorremmo identificarci. E lo fa mostrandoci il «sistema» di gestione infrastrutturale, complicatissimo e nuovo, che rende possibile questa nuova idea di viaggio.
Alcuni anni fa un gruppo di studenti di una facoltà di architettura prese in esame il rapporto tra: a) alcuni famosi delitti avvenuti a Milano nel giro di pochi anni; b), lo sfondo urbanistico, architettonico e sociale nel quale avevano avuto luogo; c) gli articoli che un famoso giornalista aveva dedicato a quei casi. Ne risultava che il giornalista, pur avendo scritto articoli molto belli, aveva tuttavia ambientato quei «casi» in uno sfondo urbano che in realtà risaliva a vent’anni prima, quando l’ultima immagine di «metropoli moderna» si era formata nelle nostre teste. Ma all’epoca dei delitti quei luoghi erano assai diversi.
Lo scrittore è un uomo che, mediante lo strumento della parola, cerca di catturare il tempo, guardarlo, dargli se possibile un nome. Oggi il tempo ci scivola sotto i piedi, e noi dobbiamo scattare e scattare di nuovo le nostre fotografie, perché avvertiamo il nostro corpo, le nostre viscere in una perenne sfasatura rispetto ad esso. C’è sempre uno iato da riempire, nella consapevolezza che rimarrà riempito per poco, che nuove faglie si creeranno.
Nelle nostre città i negozi ancora aperti dopo trenta, quarant’anni sono ormai pochissimi. Chi oggi apre un esercizio commerciale, specialmente fuori dal centro storico, può sperare di sopravvivere per pochi anni. In compenso, però, la successione degli esercizi in una certa via o area cittadina nel corso degli anni ci offrirà un segno interessante di come la città è cambiata.


Allo stesso modo, anche noi scrittori ci manteniamo a ridosso della realtà che cambia non per essere sempre al passo coi tempi, ma per non smarrire la domanda di senso che non da noi ma dalla realtà, dal tempo nasce e grida, e di cui noi scrittori siamo, in un modo o nell’altro, i servitori.

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