«Ogni notte centinaia di camion rifornivano di armi Hezbollah»

«Il giorno della tregua Israele era sul punto di sconfiggerli»

Gian Micalessin

da Shrifa (Sud Libano)

Tofich Eid si fa largo tra le macerie, raccoglie una manciata di sementi dalla polvere, afferra un sacco semisepolto dal cemento. La tela logora si strappa. Osserva stralunato quel pulviscolo di granaglia scivolargli tra i piedi, affondare tra le macerie. Fa due passi indietro, inciampa. Il figlio gli infila una sedia sotto il sedere. Tofich ci lascia cadere sopra la disperazione dei suoi 66 anni, il suo pianto sommesso. «Il magazzino, l’appartamento, i due negozi, chi mi ridarà i miei sacrifici?». Il fratello Shafik ha sei anni di più sul groppone. Lo guarda con sufficienza. «Cosa sarà mai una casa rispetto alla vittoria. Abbiamo sconfitto Israele, qualcuno pagherà, ci ridarà le nostre case». Tofich Eid si volta. Il pianto sommesso diventa un grido rauco, la disperazione uno sguardo assassino. «Airi fik ubi Hezbollah», «Va’ a farti fottere tu ed Hezbollah».
A Shrifa, un pugno di chilometri a sud del Litani, lo sanno tutti. Non fosse stato per la casa di Shafik, un mucchietto di polvere e cemento venti metri più in su, Tofich e molta altra gente del quartiere non starebbe qui a piangere. All’origine di tante disgrazie e troppe bombe c’è Darwish, quel figlio troppo famoso del vecchio Shafik, che tutti - qui e in Israele - conoscono come uno dei capi militari di Hezbollah. L’hanno visto a Shrifa anche poche ore fa. Del resto un posto come questo non si abbandona. La battaglia più importante di 34 giorni di guerra si è fermata a un chilometro di qua, tra le macerie di El Qhandourie, a metà della valle di El Najar. Quella battaglia, lasciata a metà dagli israeliani il giorno del cessate il fuoco, stava per segnare la fine di Hezbollah. Pochi ne hanno sentito parlare. El Qhandourie e Shrifa sono distrutte come Beint Jbeil, come El Kiam, come Qana. Forse di più: 120 case diroccate su 150 e un bel po’ di morti ancora sotto le macerie a El Qhandourie. Centosessanta case distrutte e 230 danneggiate qui a Shrifa. Ma di queste macerie e di questi morti nessuno parla.
Qui Hezbollah non voleva né giornalisti, né sguardi indiscreti. Mohammad - chiamiamolo così - ti spiega perché. «Siamo all’imbocco della valle di El Najar, guardate, corre tra la montagna, parallela al fiume Litani, poi scende giù fino a nord di Beint Jbeil. Chi controlla quella valle controlla tutto il cuore del sud del Libano, gli Hezbollah ci hanno scavato dentro dei camminamenti angusti, invisibili, affiancati da depositi di armi, passandoci in mezzo, attraversandola possono spostarsi e combattere in tutto il sud».
La valle di Najar per gli israeliani non è un segreto. Tra le sue gole maledette si combatterono scontri sanguinosi anche prima del ritiro del 2000. Ma dopo l’addio al Libano quel canalone angusto si è trasformato in una minaccia ancora più insidiosa. La vera svolta è la caduta di Saddam. Nella primavera del 2003, quando il confine tra Irak e Siria cessa di esistere, i villaggi del sud si trasformano in vere autostrade. Ogni notte gli abitanti vengono svegliati dal passaggio di centinaia di camion. Partono dalla frontiera tra Iran e Irak, attraversano la Siria, scendono in Libano, scaricano armi e missili, riempiono nel giro di qualche mese gli arsenali segreti scavati nei cunicoli della valle di Najar.
Secondo Mohammad, il 14 agosto scorso, giorno del cessate il fuoco, Israele era a un passo dal mettere le mani su quegli arsenali. A un passo dal disarmare Hezbollah. Mohammad non è un fanfarone qualunque. Abita qui a Shrifa, è uno sciita, e in questi 34 giorni di guerra ha perduto almeno cinque parenti. Le foto sono lì sul tavolo. Il cugino, la moglie, le due figliolette. Dilaniati, tutti assieme, dalla bomba piovuta sulla loro casa il primo giorno di guerra. «Non è stato un caso», ammette. Accanto la foto dell’altro cugino. Aveva 17 anni. Un bamboccio in mimetica e mitragliatore. Lo ha raccolto cadavere qualche chilometro più sotto. Mohammad non è un fedelissimo del Partito di Dio, ma conosce e incontra molti dei comandanti di Hezbollah della zona. Poche ore fa stava mostrando quelle stesse foto a Darwish, il capo militare di Hezbollah, figlio dell’orgoglioso Shafik e nipote dell’arrabbiato Tofik. «Lo diceva anche lui, lo ammetteva, hanno bisogno della pace, hanno bisogno del cessate il fuoco. Quando gli israeliani sono arrivati a El Qhandourie i guerriglieri erano pronti all’ultima difesa. Si erano ritirati qui a Shrifa, avevano già minato le case, si preparavano all’ultimo sacrificio, potevano reggere due giorni di battaglia, poi gli israeliani avrebbero dilagato, la valle sarebbe andata perduta».
Da quel giorno comandanti e guerrieri sono tornati nella valle, hanno rideposto le armi negli arsenali, aspettano di riuscire a riempirli di nuovo. Ma hanno bisogno di tempo e tranquillità. Mohammed ripete le parole appena sentite dal comandante. «Avevamo un coltello puntato al petto e uno alla schiena. Davanti gli israeliani sempre più forti, dietro una popolazione stremata che non ce la faceva più e ci chiedeva di smettere, ancora pochi giorni e saremmo arrivati all’ultima battaglia».
Per Hezbollah la sorpresa peggiore è stata la precisione con cui Israele ha colpito le case dei comandanti, quelle dei loro familiari e tutte le infrastrutture nascoste nelle abitazioni civili disseminate tra Shrifa e El Qhandourie. «Secondo Darwish - riferisce Mohammad - gran parte delle informazioni provenivano da Amal, secondo loro il partito sciita del presidente del Parlamento Nabih Berri finge di appoggiarli politicamente, ma sogna di distruggerli per tornare ad essere il capofila degli sciiti del sud.

Questa è la loro grande debolezza, una debolezza che ora può costargli cara. Se non fanno in fretta a ricostruire le case, se Israele trova un pretesto per trascinarli di nuovo in guerra, la gente del sud potrebbe rifiutarsi di soffrire ancora e abbandonarli al loro destino».

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