Olmert agli arabi moderati: «E adesso parliamo di pace»

Mano tesa a quei Paesi «nei quali molte voci parlano di accordo con noi». Apertura anche alla Siria, ma a condizione che rinunci al terrorismo

Gian Micalessin

Finita l’estate di guerra, la Knesset riapre i battenti e il premier Ehud Olmert ci si infila con la furia del redivivo. È sopravvissuto alla mancata vittoria, ora deve sopravvivere, ed è molto più difficile, all’inverno della politica. Il suo programma di governo - l’ambizioso ritiro dalla Cisgiordania, che gli aveva consentito di vincere le elezioni - si è dissolto tra i fumi del Libano. La tragedia dei due soldati rapiti, della Galilea martoriata dai katyusha e dell’esercito umiliato si mescola, nello stomaco dell’opinione pubblica, con il ricordo di un troppo frettoloso ritiro dal Libano.
Dunque i ritiri è meglio dimenticarli. Meglio parlar di pace. E allora Olmert non si trattiene. Pur di trovare una ricetta capace di catapultarlo nuovamente ai vertici dell’attenzione internazionale e rilanciare la sua offuscata immagine nazionale, il premier israeliano ne promette un po’ a tutti. All’omologo libanese Fouad Siniora con cui auspica di potersi «incontrare faccia a faccia per dare pace ai nostri popoli». Ai Paesi arabi moderati - «dove molte voci parlano di una pace con Israele» - per costruire un asse con cui contrastare l’egemonia iraniana e la minaccia nucleare. Al disgraziato presidente palestinese Abu Mazen al quale Olmert promette, per l’ennesima volta, il tanto sospirato vertice per rilanciare i negoziati. Per non trascurar proprio nessuno Olmert si rivolge persino al presidente siriano Bashar Assad con cui, dice il premier, Israele potrebbe dialogare se Damasco rinunciasse al terrorismo.
Che si tratti di politica estera a uso interno ci vuol poco a capirlo. Privo di un programma, Olmert deve dare un senso a se stesso e al neonato partito Kadima per non ritrovarsi a casa entro pochi mesi. La ricerca di convergenze «arabe» non è comunque un pretesto infondato. La ricerca di un’intesa con gli arabi moderati e più specificatamente con l’Arabia Saudita segue le linee di frattura di quel conflitto sciita-sunnita che partendo dall’Iran attraversa l’Irak, la Siria e il Libano minacciando di far deflagrare il Medio Oriente.
A conti fatti l’unico nemico in grado di rappresentare una minaccia esistenziale, soprattutto se riuscirà a costruire la bomba atomica, è l’Iran. L’apertura a sauditi e moderati diventa, dunque, necessità. Il ramoscello d’ulivo offerto a Siniora è una mossa all’interno della stessa partita. Siniora, uomo del defunto Hariri e dei sauditi, è nel mirino di Hezbollah che studia, d’intesa con la Siria, la sua neutralizzazione politica. Ma le profferte di Olmert in un Paese reduce dai bombardamenti israeliani rischiano di diventare un bacio avvelenato. Rafik Hariri si ritrovò dilaniato da un’autobomba per molto meno e Siniora non l’ha scordato. Certo, se Damasco interloquisse con Israele tutto potrebbe cambiare. Ma per ora è utopia e Siniora risponde, nell’unico modo possibile: «Il Libano sarà l’ultimo Paese a far la pace con Israele».
Più imbarazzato di Siniora sembra Abu Mazen: si ritrova a fare i conti con le minacce del ministro della Difesa Amir Peretz che promette un’offensiva di rare proporzioni su Gaza e con quelle dei militanti di Hamas che lo accusano di far il gioco d’Israele. Anche per lui la stretta di mano con Olmert rischia di essere fatale.

Meglio, allora, lasciar passare la burrasca di quell’offensiva nella Striscia con cui Israele spera di stroncare Hamas, distruggere le nuove armi contrabbandate dall’Egitto e liberare il caporale Gilad Shalit. «Non lasceremo - ha ricordato ieri il ministro della Difesa Peretz - che Gaza si trasformi in un nuovo Libano». In fondo ci spera anche Abu Mazen.

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