Olmert di parola: libereremo 250 palestinesi

Venerdì la scarcerazione. Cancellati anche gli ordini di arresto o di eliminazione per 178 super ricercati di Fatah. Ma la popolazione civile non è soddisfatta

Ora tutti si chiedono dove sia disposto ad arrivare Ehud Olmert. Ieri nell’ennesimo incontro a Gerusalemme con il presidente palestinese Mahmoud Abbas il premier israeliano ha tenuto fede a tutti gli impegni. Ha confermato la liberazione di 250 prigionieri palestinesi entro venerdì, ha cancellato con un tratto di penna i mandati d’arresto o di eliminazione per 178 super ricercati di Fatah e ha discusso su come arrivare alla nascita dello Stato palestinese. Ma si è ben guardato, sottolineano i portavoce, dall’affrontare temi cruciali come lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi e i confini del nuovo Stato. Dal punto di vista di Abbas le concessioni restano dunque inadeguate. O meglio, insufficienti a soddisfare un’opinione pubblica sempre più scettica sulle capacità del presidente di strappare a Israele risultati concreti.
Il ritorno in circolazione di 178 miliziani costretti, fino a oggi, a vivere nascosti per sfuggire alla cattura o peggio, non rallegrerà molti palestinesi. Per la popolazione civile quei militanti rappresentano il simbolo dei soprusi e delle ingiustizie subite da chi non approva la corruzione dei servizi di sicurezza di Fatah e la violenza.
I 250 galeotti pronti a uscire di cella già venerdì, se l’apposita commissione parlamentare della Knesset ratificherà i loro nomi, rappresentano invece una percentuale troppo limitata per distribuire gioia e guadagnare consensi. Gli 11mila prigionieri nelle carceri israeliane hanno legami con tutte le famiglie della Cisgiordania e dunque, per la legge dei grandi numeri, solo il rilascio di qualche migliaio di loro assieme a qualche nome di rilievo soddisferà il grande pubblico. «Il presidente ha fatto di tutto per ottenere la liberazione di alcuni leader», spiega il consigliere Saeb Erakat sottolineando che la richiesta riguarda anche Marwan Barghouti, il segretario generale di Fatah condannato a quattro ergastoli e considerato il naturale successore o rivale di Abbas. L’aver rimesso in circolazione personaggi come Zubeida Zakaria, capo delle Brigate Martiri di Al Aqsa a Jenin, e aver «dimenticato» Barghouti rischia di diventare un grosso problema per Abbas. Soprattutto se ad ottenere la sua liberazione sarà Hamas scambiandolo con il militare israeliano rapito un anno fa a Gaza.
L’insoddisfazione palestinese, di fronte a concessioni considerate importanti o esagerate dall’opinione pubblica israeliana, è chiaramente espressa dal premier Salam Fayyad. «Le dimostrazioni unilaterali di buona volontà restano prive di significato - spiega il premier - se non sono accompagnate da veri negoziati di pace». Ma per affrontare veri negoziati di pace bisogna addentrarsi nel periglioso labirinto delle cosiddette questioni fondamentali, come appunto lo status di Gerusalemme, i confini e il ritorno dei profughi. Questioni troppo insidiose, dicono gli osservatori, per un leader con sospesa sulla testa la spada di Damocle della commissione d’inchiesta sulla guerra del Libano. Olmert, dicono a Gerusalemme, potrà cominciare a pensarci soltanto se sopravviverà alla pubblicazione del verdetto finale della Commissione Winograd. Soltanto allora, e dopo aver strappato sufficienti garanzie a Washington, il redivivo premier potrà convincere gli elettori della bontà delle sue mosse. Ben che vada, bisognerà dunque attendere l’autunno. Nel frattempo Abbas e Fayyad dovranno stringere i denti e sopravvivere al malcontento e ai tiri mancini di Hamas. Ieri i portavoce fondamentalisti non hanno mancato di sottolineare la disponibilità del presidente a dialogare con Olmert di fronte al rifiuto a trattare con Hamas. Considerazioni maliziose ma efficaci per far leva su un’opinione pubblica perennemente insoddisfatta.


L’unica concessione di rilievo per il prossimo vertice, se le condizioni di sicurezza lo permetteranno, potrebbe dunque essere la disponibilità ad incontrare Mahmoud Abbas in territorio palestinese. «I palestinesi vorrebbero andare molto di fretta, ma l’israeliano medio pretende molta più calma quindi - spiega la portavoce israeliana Miri Eisin - bisogna trovare una soluzione che soddisfi entrambe le parti».

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