Onore a Nanda, amerikana ma con passione

Le milleseicento pagine del secondo tomo dei Diari (1974-2009) di Fernanda Pivano, appena uscito da Bompiani, sono davanti a me e io ne leggo una, e poi un’altra, e poi altre cento, e ancora cento, eccetera eccetera, alla ricerca del punto d’appoggio per la leva d’Archimede del mio esercizio critico.
Non sono un giornalista e non cerco notizie. Men che meno il gossip. Non m’importa se Pavese le si dichiarò, o se abbia avuto o meno storie d’amore con i suoi scrittori. Cerco piuttosto un passo, una frase, una scheggia capace di ferire, un lampo in grado di illuminare. Ma non trovo niente. Le pagine e gli anni si srotolano, irritanti, tra incontri, convegni, serate, cene, vacanze, polemiche, pieni di nomi di luoghi e di persone. I giorni se ne stanno lì come dentro una pellicola domopak, incartati così come sono, senza nessuna profondità.
Eppure continuo a leggere queste pagine, e se mi chiedo perché mi do risposte facili. Il suo tempo, per esempio, così lontano dal mio. I suoi anni maggiori, che furono come un lunghissimo viaggio tra luoghi e persone lontane da noi, quando erano in pochi ad andare in America e qui da noi le notizie, e soprattutto i libri da tradurre, ci giungevano attraverso quei pochi, il loro fiuto, le loro preferenze. I loro errori.
Sì, forse è vero che Fernanda Pivano appartiene alla storia di un’Italia piccola e provinciale, ancora segnata dalla povertà. Come mio papà, che fu l’unico dei suoi fratelli a proseguire gli studi, fino alla laurea, dopo la quinta elementare, così anche lei è un po’ la sorella fortunata di quei tempi: quella che se ne va in America, e poi ce la racconta attraverso le pagine degli scrittori che ama. So di avere un brutto carattere. Amo le avventure intellettuali, i temperamenti fortemente segnati dall’intelligenza. Ma - anche in ambito culturale - questo è un limite. Me ne accorgo proprio leggendo Fernanda Pivano, il cui nome si lega a poco a poco, man mano che la lettura procede (con molti ritorni all’indietro, perché gli ultimi anni sono anche decisamente i meno interessanti), a qualcosa di diverso dall’idolo dell’Intelligenza. C’è un destino in questa persona che ha qualcosa di smisurato: chiamiamola fortuna, se vogliamo, ma nel senso antico della parola.
Fernanda Pivano non è comprensibile per quello che «dice», ma per ciò «di cui parla», per l’avventura che racconta, o meglio: per l’avventura che si racconta in queste pagine. Insomma, il suo destino, che tanta parte ha avuto nella nostra letteratura. Per decenni ciò che abbiamo conosciuto e amato della letteratura americana dipese dai suoi amori, dalle sue preferenze. Il nome di Fernanda Pivano si lega indissolubilmente - in me come in tanti altri, immagino - agli anni ’60-70 e alla scoperta della beat generation.
Avevo quattordici anni quando acquistai On the road, curato dalla Pivano: il primo libro che lessi di nascosto dai miei genitori, che nascondevo tra la rete del letto e il materasso. E poi le poesie di Ginsberg, Corso, Ferlinghetti. Fu sui loro testi che si formò la mia prima adolescenza. Fernanda Pivano era per me la profetessa, la sacerdotessa di quel mondo, che cominciava con il be-bop e arrivava al grande concerto di Woodstock e alle note tragiche dell’Inno americano di Jimi Hendrix.
Era un quadro semplicistico, se vogliamo, un mosaico con tante, troppe tessere mancanti. Eppure, che vitalità. A tempo perso, ci si può chiedere cosa ne sarebbe stato della coscienza della mia generazione se Fernanda Pivano avesse avuto gusti letterari un po’ più fini, se avesse accettato di misurarsi con autori ben più grandi (penso a Flannery O’Connor) facendoceli conoscere tempestivamente. Ma gli errori sono inevitabili, e allora il problema non è evitarli ma capire che errori sono, di che tipo. E qui è il carattere di Fernanda Pivano a illuminarci. Un carattere semplice, diretto, di una smisurata generosità, segnato da una grande capacità di amare - e non importa se ciò che amava non corrispondeva a ciò che amavo io.
Mi viene in mente un episodio che risale a quando avevo vent’anni. A quel tempo gli ardori beat appartenevano per me al trapassato remoto e da anni non leggevo più una riga della Pivano. Un amico più grande di me, fine letterato, mi raccontò un giorno dell’incontro che aveva fatto la sera prima con la Pivano e, col gusto crudele che si ha quando si è giovani, disse di averla inchiodata ai suoi errori, alle sue bugie, e di averla fatta piangere. Io allora mi congratulai con questo amico. Oggi invece, se potessi, mi congratulerei con Fernanda Pivano, che accettò di lasciarsi mettere in crisi, e fino alle lacrime!, da un ragazzotto che poteva essere suo figlio. Quanti intellettuali, oggi, sono disposti a tanto? Chi sa mettere le proprie lacrime là dove l’intelligenza è sconfitta? Chi accetta di perdere la faccia a quel modo?
Onore dunque a lei, signora Pivano.

È un onore tardivo, ma sincero. È di intellettuali come lei che abbiamo bisogno: gente capace di donarsi, di rischiare, di sbagliare, di piangere. Questi, e non i «fini analisti», sono gli intellettuali di cui abbiamo bisogno.

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