A Palazzo Chigi va in scena l’immobilismo

Ruggero Guarini

A Palazzo Chigi hanno deciso di darsi al teatro. Hanno infatti già allestito un’eccellente rappresentazione di «Giorni Felici», la bella commedia di Samuel Beckett, del quale fra l’altro quest’anno ricorre il centenario della nascita. Lo si è potuto dedurre dal fatto che il ministro Padoa Schioppa, dopo aver lasciato ad altri suoi colleghi di governo il compito di rivelare che questo centro-sinistra non ama né i grandi ponti né i treni veloci, ha annunciato che sta meditando di chiudere tutti i cantieri di strade (ferrate e non) che erano stati incautamente aperti dal governo precedente.
Di questa commedia (come del resto tutto il teatro di Beckett) si è sempre detto che è un’allegoria della condizione umana. Ma ora che la sinistra al potere ci ha finalmente rivelato che il suo vero sogno è la paralisi del paese, occorre precisare che quella celebre pièce è piuttosto una spassosa metafora della presente condizione italica.
“Giorni felici” fu scritta nel 1961, ragion per cui si potrebbe obiettare che è assurdo pretendere che vi si parli della situazione attuale del nostro paese. Nel momento più poetico di quella pièce accade invece qualcosa il cui vero senso può chiarirsi solo se si ammette che Beckett, in questa commedia, col suo profetico sguardo d’aquila, riuscì a trafiggere il cuore dell’Italia dei nostri giorni.
Winni, la protagonista della commedia, è com’è noto una donna sulla cinquantina che se ne sta sepolta nella sabbia fino alla vita chiacchierando ininterrottamente. Parla di sé e del marito, un certo Willie, anche lui mezzo sepolto in una buca, e mentre parla estrae dalla sua borsa alcuni oggetti. Sono le piccole cose di tutti i giorni: uno spazzolino da denti, un rossetto, la boccetta di un medicinale, una lima per unghie... Nel suo fiume di parole Winnie manifesta la coscienza dell'enorme solitudine nella quale sta sprofondando. «Verrà un giorno – dice – in cui dovrò imparare a parlare da sola». Ma verrà anche il momento in cui saranno le parole stesse a mancare e il Nulla sarà l'unico protagonista.
Chi è questa Winnie, che nel secondo atto apparirà ormai interrata sino al collo, col volto solcato da rivoli di sudore? È una rappresentazione dello stato di estrema derelizione raggiunto dall’umanità contemporanea? O non sarà piuttosto una creatura impegnata in un’estrema, paradossale apologia della vita, che lei riafferma e celebra, mentre tutto vorrebbe negarla, contro la solitudine e il silenzio?
La parola agli esperti del ramo. Qui vorremmo limitarci a richiamare l’attenzione sul significato di quello che è forse il momento culminante della pièce. Mi riferisco ai piccoli gridi di sbigottito allarme con cui Winnie, a un certo punto, reagisce all'apparizione inattesa di qualcosa che osa muoversi ancora sulla morta sabbia del deserto in cui lei vive interrata: «Oh, ma dico, che cosa c’è qui? (...) Sembrerebbe un qualche genere di vita (...) Una formica! (...) Willie, una formica, una formica viva!».


Bene, mi sembra evidente che dal terrore che suscita in Winnie il movimento di quella formica è doveroso arguire che Beckett, con la creazione di questa simpatica signora votata a un incessante chiacchiericcio, e al tempo stesso ostile a ogni possibile movimento, annunciò, senza saperlo, l’ascesa al potere della nostra loquace sinistra sul montarozzo Italia.
guarini.r@virgilio.it

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