Il «paradiso dei lavoratori»? Tutte balle, cari compagni

Eccellente idea, quella della casa editrice Mursia di riproporre - con introduzione di Andrea Ungari - un libretto che Aldo Cucchi pubblicò nel 1952, dal titolo Una delegazione italiana in Russia (pagg. 144, euro 11). Quelle pagine - uscite in precedenza, a puntate, su alcuni quotidiani - narravano con asciutto distacco cronistico i servilismi, i timori e i furori d’un gruppo di comunisti italiani di presunta sicura fede che nel novembre del 1950 visitò l’Urss su invito dell’Associazione sovietica per i rapporti culturali con l’estero.
Quando il volumetto andò in libreria, Aldo Cucchi era già, per il Pci, un «rinnegato senza principi, nemico della classe operaia e del partito, strumento dei nemici dell’Unione Sovietica e di tutti gli onesti difensori della pace, della libertà e indipendenza del nostro Paese». Aldo Cucchi, che militava nella federazione di Bologna, fu accomunato nella condanna a Valdo Magnani, dirigente di partito a Reggio Emilia. Di entrambi Palmiro Togliatti disse che erano «pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa». In realtà i due, espulsi con ignominia dal Pci, erano rei di dissidenza e soprattutto di scarsa obbedienza al culto dell’Urss e di Stalin.
Quando partecipò al citato viaggio in Urss, Cucchi era ancora, a tutti gli effetti, un compagno affidabile. Ma aveva occhi per vedere e orecchi per sentire. Gli italiani invitati nel «paradiso dei lavoratori» avevano un capo in Secondo Pessi, un vicecapo nel segretario comunista di Napoli Salvatore Cacciapuoti, autorevoli esponenti di partito nell’onorevole Antonio Bernieri di Massa Carrara e nel senatore Pietro Montagnani. I non comunisti (Francesco De Martino, socialista, il professor Luigi Russo, liberale) fecero da contorno al nucleo puro e duro. Fiore all’occhiello della delegazione era Lamberto Maggiorani, protagonista del film Ladri di biciclette: pellicola incessantemente presentata in Urss perché dava dell’Italia un’immagine stracciona, da contrapporre a quella nobilmente appagata di chi viveva nella patria dei lavoratori.
Nello schema mentale di chi organizzava queste incursioni pseudo-culturali in terra di falce e martello, alcune cose erano ben chiare. Si arrivava da un Paese miserabile, afflitto dalla povertà, e si approdava in un Paese in rigoglioso sviluppo. Non era il caso di imbarazzare con osservazioni impertinenti i sovietici: e se capitava di vedere arretratezza, se ne doveva far colpa al regime zarista, non certo al geniale e baffuto padre dei popoli. Gli italiani furono accompagnati in visita alle meraviglie di Mosca, in particolare la metropolitana («un comunista capo di cooperative - annota Cucchi - mi confidò che nell’ultimo periodo di costruzione della metropolitana, siccome il rendimento degli operai non era soddisfacente, si procedette a una decimazione e parecchi furono fucilati»).
Nella delegazione c’era un rompiscatole, il geometra Cesare Cesari di Bologna, che aveva il vizio di porre domande scomode (ma anche Maggiorani era colto da perplessità). Fu indetta per il «caso Cesari» una riunione che somigliava molto a un processo, e Cacciapuoti gli addebitò la colpa di fare della provocazione. Cesari reagì con durezza. Montagnani a sua volta lo rimproverò per aver detto ai contadini di un kolchoz che stavano peggio dei contadini italiani. Mentre - parola di Montagnani - «un contadino italiano sarebbe felice di abitare nella stalla di un kolchoz». Di notazioni come questa se ne trovano in gran numero, nel prezioso libriccino. Dopo la cui pubblicazione diciannove partecipanti al viaggio si sentirono in dovere di smentire Cucchi: il quale aveva scritto cose che la sinistra d’oggi ammette essere state non vere ma verissime.
L’ottusità settaria di quei comunisti era ripugnante. Ma non quanto il conformismo sciocco degli intellettuali che non credevano, ma fingevano di credere. Demetrio Volcic, che fu corrispondente della Rai in Urss e che non è sospettabile di pregiudizi antiprogressisti, ha bene raccontato quanto accadde durante una «settimana del cinema italiano» a Mosca. I russi erano in abito scuro, avrebbero voluto vedere pellicole che rispecchiassero il lusso italiano, dovettero invece contentarsi di narrazioni di miseria e sofferenza. Ma la grande sorpresa l’ebbero allorché, accese le luci, videro la delegazione di importanti cinematografari italiani entrati in sala mentre era buio.

«Almeno la metà di loro vestivano tute mimetiche e berretti alla Che Guevara come se dovessero andare al fronte, alzavano il pugno prima di mettersi ad applaudire in platea, come avevano visto fare nelle cerimonie russe». Scimmiottatori grotteschi. Meglio, nonostante tutto, i trinariciuti di Guareschi.

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